Nei dintorni della Punta Corrà
La Punta Corrà è una elevazione secondaria, spalla della vicina Uia della Gura, posta alla testata della Val Grande di Lanzo. Il nome venne proposto dai primi salitori della bella parete Sud Est a ricordo dello scalatore Giuseppe Corrà, esploratore delle montagne delle Valli di Lanzo travolto, con le guide Meynet e Pellisier, da una scarica di sassi il 29 agosto 1896 sulla Grande Sassiere.
Il suo versante Sud Est è formato da una ripida parete: uno dei gioielli della bellissima testata della Valle Grande. I primi a salire tale parete furono Andrea Mellano e Beppe Tron che tracciarono, il 13 settembre 1959, una via bella e difficile.
Quelle montagne mi conquistarono fin dalla prima volta che le ammirai quando, non ancora alpinista, raggiunsi il rifugio Daviso con mio padre. Vi ritornai più volte e lì usai per la prima volta picozza e ramponi per salire il canalone nevoso del Colle Girard. Era l’inizio dell’estate1958.
Divenuto scalatore orientato verso difficoltà elevate, il mio interesse per quell’angolo di montagne non venne a meno, anzi ne ero ancora più attratto in quanto era evidente che lì c’era ancora molto da esplorare. Nell’ottobre 1967, con Pietro Giglio, salii al rifugio Ferreri con l’intento di ripetere la via Mellano-Tron che risultava la via più difficile aperta fino ad allora sulle pareti dell’ampia testata.
Quando fummo sul ghiacciaio e la Corrà ci apparve illuminata dai primi raggi del sole, notai subito che a destra della via, nostro obiettivo, vi era un altro sperone parallelo molto promettente. Proposi seduta stante al mio compagno di tentare l’apertura di una nuova via sul secondo sperone. Una “prima” è sempre più allettante di una ripetizione. Pietro fu d’accordo con me e così ci avviammo su terreno vergine.
Sette ore di entusiasmante scalata ci portarono in vetta alla Punta Corrà. Poi, spinti dalla necessità di sfuggire all’oscurità incombente, scendemmo il più velocemente possibile dal colle Santo Stefano per nevai e detriti.
Un anno dopo ero nuovamente lì in compagnia di Ezio Comba, Gian Piero Motti, Ilio Pivano. Avevamo un obiettivo importante: lo sperone che scende dall’ultima elevazione verso Est della Cresta di Mezzenile, mai salito da nessuno. Fu una bellissima e difficile scalata che ci portò sulla torre innominata cui demmo il nome di Punta Antonio Castagneri.
Negli anni a cavallo tra 1960 e 70 l’interesse di molti scalatori si concentrò sulle ascensioni invernali. Molte vie e pareti importanti non risultavano ancora scalate nella stagione più fredda e la “caccia” a queste prime fungeva da incentivo per chi non temeva freddo, giornate corte ed eventuali gelidi bivacchi in parete. Le pareti del versante Sud-Est della costiera Gura Mezzenile non contavano ascensioni invernali. La loro è una esposizione sfavorevole perché il vento, che spira prevalentemente da nord ovest, anziché pulirle, accumula neve su ogni cengia e rilievo.
La voglia di realizzare qualche invernale in quei luoghi albergava in me da tempo ed all’inizio dell’inverno 1974-1975 mi decisi. Era un debutto d’inverno scarsissimo di neve e la montagna appariva spoglia in ogni dove, valutai che era il momento giusto per la testata della valle Grande, bisognava andarci al più presto. Trovai disponibilità in Mariangelo Cappellozza, giovane compagno di varie scalate, ed in Corradino Rabbi, grande personaggio dell’alpinismo torinese, sempre pronto per ogni tipo di impresa.
L’obiettivo da me scelto era la via Mellano-Tron della Punta Corrà così nel pomeriggio del 4 gennaio ci trovammo a salire lungo il sentiero che porta al rifugio Ferreri. Di neve proprio non ce n’era, anche le pareti, viste dal basso, apparivano pulite. Per entrare nel rifugio dovemmo però scavare in uno spesso strato di neve che ostruiva l’ingresso, accumulata dal vento.
Tali condizioni mi indussero ad una valutazione che poi si rivelò errata. Proposi ai miei due compagni di partire leggerissimi perché con condizioni quasi estive avremmo sicuramente evitato il bivacco. Cosi facemmo ed al mattino seguente, percorso al buio il lungo avvicinamento, alle prime luci dell’alba eravamo alla base della parete. Data l’esposizione ad est i raggi del primo sole ci raggiunsero presto e noi, senza esitazioni, iniziammo la scalata. Salivo io in testa legato alle due corde ed i miei due compagni seguivano in contemporanea legati ognuno al capo di una corda.
Ci bastarono pochi metri di scalata per scoprire l’errore in cui eravamo incorsi: vista dal basso la parete appariva “pulita”, invece ogni protuberanza era coperta da un sottile strato di neve portata dal vento, sovente trasformata in ghiaccio. Ogni appiglio andava pulito prima di essere utilizzato per cui fummo costretti a scalare con molta attenzione a scapito della velocità. Rallentati da una arrampicata resa delicata dalla presenza di neve e ghiaccio giungemmo in vetta che era ormai buio e fummo costretti al bivacco sulla vetta stessa.
Fu una notte gelida, non avevamo altre protezioni che gli indumenti che indossavamo e lo zaino da infilarci dentro i piedi. Ovviamente per essere leggeri non avevamo portato il fornelletto e non potemmo neanche fondere un po’ di neve per bere. Ma anche quelle lunghe penose ore passarono con un gran battere di denti e frizioni varie per non congelare, e finalmente giunse l’alba. Anchilosati dal gran freddo faticammo un po’ a rimetterci in moto ma poi iniziammo a scendere lungo il canalone di neve compressa del colle Santo Stefano. Le pene sofferte nella notte furono presto archiviate ed in noi emerse la soddisfazione per la bella “invernale” portata a termine.
Rievocando le avventure della Corrà di tanti anni fa mi viene da pensare ai miei due compagni dell’invernale alla via Mellano-Tron. Di Mariangelo e le sue divertenti stranezze: dalla sua trombetta di ottone alle avventure/disavventure del suo periodo militare, ho già raccontato diffusamente. Di Corradino Rabbi invece non ho mai avuto occasione di raccontare, e dire che di cose insieme ne abbiamo fatte.
Se ripenso ai personaggi che hanno incrociato, non occasionalmente, la mia vita di alpinista, in ognuno c’è qualche caratteristica che compare immediatamente nella mia mente quando la loro figura attraversa i miei pensieri. Ad esempio: se penso a Gian Carlo Grassi subito prende forma la sua serena, inesauribile passione per ogni forma di scalata, talmente infinita da trovare pochi riscontri in altri scalatori. Se invece il pensiero si rivolge a Gian Piero Motti mi sovviene la sua lucida intelligenza e soprattutto la grande sensibilità che gli faceva scoprire e raccontare cose che i più non percepiscono, ma che a volte lo portava a momenti di dubbio e di crisi.
L’immagine di “Dino” Rabbi riporta alla mia mente una qualità innata che non mi ricordo di aver mai osservato in tale misura su persone di mia conoscenza: la disponibilità nel confronto degli altri. Rabbi è un uomo rispettoso delle istituzioni e, nell’ambito di quelle del CAI, non si è sottratto agli incarichi più impegnativi, mai per ambizione ma sempre con spirito di servizio. E’ stato Direttore della scuola Gervasutti, Presidente del CAAI, prima del Gruppo Occidentale poi Presidente Generale. Socio storico della Sezione UGET del CAI, ha ricoperto per anni la carica di Presidente della Sezione.
La sua disponibilità nei confronti degni amici è sempre stata esemplare, mi viene in mente il sostegno, prodigato in un momento difficile, a Ottavio Bastrenta, notaio ad Aosta ed alpinista attivo, suo grande amico.
Un’altra caratteristica che ho sempre osservato in Corradino è la commozione che non riusciva a trattenere di fronte ad eventi drammatici come la morte in montagna di un amico o quando fu assassinato Guido Rossa. Ma le lacrime agli occhi gli giungevano anche quando interveniva su episodi felici, Ricordo bene nel 1984 al campo base sul ghiacciaio del Tiric Mir quando, dopo 5 giorni di scalata e 4 bivacchi sulle creste dei Bindu Gol Zom, Lino Castiglia, io, Franco Ribetti e Claudio Sant’Unione, ritornammo sfiniti dopo aver raggiunto l’obiettivo della spedizione. Rabbi, nel tendone cucina del campo, improvvisò un discorso di felicitazione come Presidente dell’Accademico. Discorso interrotto più volte per la commozione.
In tutti noi, quando parliamo delle nostre salite compare, a volte senza volerlo, un po’ di autocelebrazione, in Rabbi questa tendenza io non l’ho notata, e si che di scalate importanti nella sua carriera di alpinista ne ha realizzate tante. Egli era sempre disponibile per ogni tipo di impresa: dalle ripetizioni di grandi vie classiche, prime ascensioni, prime invernali, spedizioni extra europee. Ha scalato con giovani emergenti dell’alpinismo torinese quali Gianni Ribaldone e Gian Piero Motti. Egli lasciava sempre che questi quasi fuoriclasse sfogassero la loro esuberanza andando da primi di cordata ma quando le cose divenivano complesse, come successe a volte per il sopraggiungere della tempesta, emergeva la sua calma e la sua esperienza nel contribuire in modo determinate nell’uscire dalla situazione critica. Così avvenne con Ribaldone nell’invernale al Pilier Gervasutti al Tacul e con Motti al Gran Capucin, due scalate avversate dal sopraggiungere del maltempo.
Non ricordo quando incontrai per la prima volta Dino Rabbi, ma imparai a conoscerlo bene quando entrai nel GAM (Gruppo Alta Montagna UGET) e successivamente nella scuola Giusto Gervasutti nel 1965. Egli ha 9 anni più di me ed allora mi parve quasi di un’altra generazione ma presto mi resi conto che la sua voglia di affrontare problemi alpinisti era ben radicata nell’attualità
Nella scuola era molto attivo, come del resto in tutte le attività che ha affrontato, ed io ero colmo di entusiasmo per cui cominciammo a collaborare nel mantenere l’attività della Gervasutti ad un livello elevato. Insieme portammo degli allievi, tra i più bravi, a salire la parte NO del Combin de Valsorey per l’impegnativa via Eidher-Vanis.
All’inizio degli anni ’70, poco prima della scoperta del Caporal in Valle dell’Orco, Gian Piero Motti ed io iniziammo a visitare le Prealpi calcaree francesi. Le nostre entusiastiche descrizioni convinsero molti a seguire il nostro esempio ed anche Rabbi volle provare a scalare su quelle pareti che sentiva da noi magnificare. Venne con me a salire la difficile Voie du Rif Tord alla Crète du Raisin nella suggestiva Grande Manche del Massif de Cerces che era allora a noi sconosciuto anche se relativamente vicino a Torino. Rimase molto soddisfatto della scalata e mi ricordo ancora il suo commento:
<Noi ci fermavamo in Valle Stretta, e pensare che bastava valicare una cresta per trovare tutta questa roba a disposizione>.
Si lasciò anche coinvolgere dalla nostra curiosità/febbre di Valle dell’Orco seguita al Caporal, così nell’autunno 1974 si uni a Claudio Sant’Unione ed a me nell’esplorare la sconosciuta parete che sovrasta il Caporal: la Parete delle Aquile. Scalammo tutto il giorno sovrastati dal volo di due maestose aquile che avevano il nido poco discosto dalla nostra via ed uscimmo in cima quando era ormai buio, soddisfatti per la difficile scalata e un po’ preoccupati per la sconosciuta discesa notturna da affrontare.
Di cosa si parla quando si è solo in due nei viaggi in macchina, negli avvicinamenti, nei bivacchi e nelle lunghe discese dopo la scalata? Nell’ultima per lo più si sta zitti perché stanchi e rimane solo il desiderio di scendere al più presto. Negli altri casi di tutto, dipende dal compagno e dagli interessi comuni. Con Dino credo di aver parlato soprattutto di personaggi legati all’alpinismo e di vicende umane legate a tali personaggi, di storia dell’alpinismo, di montagne e di progetti di scalate. Attraverso i suoi racconti ho imparato a conoscere dei personaggi a me noti solo per il nome e, parlando di montagne, egli mi ha indicato dei problemi da risolvere che poi sono diventati dei miei obiettivi: uno su tutti il percorso integrale della Cresta di Tronchey alle Grandes Jorasses. Egli aveva grande rispetto per dei personaggi che avevano fatto la storia dell’alpinismo, tra questi Renato Chabod ed Amilcare Cretier che con Lino Binel avevano salito per primi la parete Sud Est del Mont Maudit nel 1929. Tale via interessava molto a Rabbi e quando cominciammo a parlarne non era ancora stata salita in inverno. Era allora un grosso problema invernale e noi decidemmo di tentarlo.
In uno splendido pomeriggio invernale d’inizio 1974 salimmo al bivacco Ghiglione del col du Trident sulla cresta della Tour Ronde (oggi non esiste più). Dal colle assistemmo ad uno spettacolare tramonto con le pareti rese di fuoco dagli ultimi raggi del sole. Troppo bello per essere normale, nella notte cominciò a nevicare e noi dovemmo abbandonare il nostro progetto e scendere dal canale del colle infarinati dalle piccole slavine di neve farinosa. La prima invernale di quella via venne realizzata un anno dopo da quatto forti guide: J.P. Balmat, D. Ducroz, M. Dandelot, J. Jenny, dal 22 al 24 gennaio 1975.
Nell’estate dello stesso 1974 ci trovammo ancora ad operare insieme nell’aprire una nuova via non programmata sulla parete S.E. dell’Aiguille d’Argentiere nel massiccio del Monte Bianco. Su quella cima io avevo percorso l’arète du Jardin ed ero rimasto colpito dalla parete di granito rosso del versante S.E. della Cima Sud. Avevo letto che su quella parete vi era una via di Gaston Rebuffat ed ero curioso di andarla a vedere. Dino, sempre interessato alle novità, aderì con entusiasmo alla mia proposta così l’alba del 28 luglio ci trovò alla base della parete pronti all’azione. La parete appariva superiore alle mie aspettative e subito notai che vi era spazio per una via più diretta della Rebuffat. Proposi al mio compagno di tentare una nuova via ed egli mi rispose semplicemente: <Vai pure>.
500 metri di ottimo granito rosso e 9 ore di scalata e la nostra firma era posta su quella bellissima montagna.
L’alpinismo invernale era in gran voga in quegli anni ed io avevo messo a fuoco un bell’obiettivo: la parete S.O della Becca di Moncorvè mai salita d’inverno. Aderirono al progetto: Roberto Bianco, il giovane Mariangelo Cappellozza Dino Rabbi e Claudio Sant’Unione. Al 20 dicembre 1974 eravamo pronti a salire al rifugio Vittorio Emanuele per entrare in azione allo scoccare dell’inverno. Era un inizio d’inverno con temperature molto basse ed assenza di neve, si poteva raggiungere Pont Valsavarenche in auto ma con il rischio di rimanere bloccati in caso di nevicata in quanto la strada in inverno veniva tenuta aperta solo fino all’abitato di Eau Rousse.
Poco prima della partenza Rabbi venne colpito dall’influenza e dovette rinunciare ma, ancora febbricitante, sali con la sua auto in Valsavarenche e ci trasporto fino a Pont in modo che la nostra auto rimanesse parcheggiata ad Eau Rousse evitando i rischi di blocco in caso di improvvisa nevicata.
La scalata andò a meraviglia, scendemmo soddisfatti ma con un unico rammarico, quello di non aver avuto con noi il nostro generoso compagno.
Corradino Rabbi ha sempre avuto un grande interesse per le montagne extraeuropee e di spedizioni ne ha fatte molte. Quando anch’io decisi che volevo visitare le montagne lontane era quasi d’obbligo progettare la spedizione con lui. Prendemmo in considerazione vari obiettivi ma poi scegliemmo il Garhwal indiano nel gruppo del Nanda Devi. In quel gruppo era da poco stata salita da un fortissimo gruppo di scalatori inglesi una montagna di straordinaria bellezza e difficoltà: il Changabang. Conquistati dalle immagini di quei posti chiedemmo il permesso di tentare il monte vicino al Changabang: il Kalanka. Le nostre informazioni si rivelarono imprecise e ci trovammo nella valle sbagliata, eravamo si sotto l’impressionante Changabang ma dal Kalanka ci separava la catena dei Risi Kot con quota superiore ai 6000 metri. Il tempo a nostra disposizione non ci avrebbe consentito di scavalcare tale catena, occorreva scegliere un altro obiettivo.
Rabbi, con la sua pazienza riuscì a comunicare con il portatore rimasto con noi al campo base e da questi venne s sapere che una spedizione giapponese aveva salito, nel periodo pre monsonico, il Changabang lungo l’imponente spigolo S. O. I giapponesi avevano lasciato corde fisse e molto materiale in parte. Prendemmo una decisione un po’ pazza: tentare di ripetere la via dei giapponesi. Piazzammo un campo avanzato ed in quattro iniziammo a salire lungo lo spigolo. Scalammo per due giorni ma poi ci rendemmo conto che ci mancava sia il tempo che il materiale per proseguire.
Mentre noi eravamo intenti alle nostre manovre, a nostra insaputa, sulla vicina parete Ovest erano impegnati gli inglesi Peter Boardman e Joe Tasker nella loro straordinaria impresa. Curioso un passaggio del libro di Boardman: La Montagna di Luce, che racconta la grande impresa.
I due da molti giorni sono impegnati in parete, ad un tratto uno dei due dice all’altro: << Ho sentito delle voci >>. L’altro risponde: << Stai andando fuori di testa, stai vaneggiando >> << No >> risponde il primo <Ho visto anche una luce in cielo>. Le voci erano le nostre e la luce ere un razzo verde che avevo lanciato io dopo il primo giorno di scalata per segnalare, a chi era rimasto giù, che avremmo continuato nel tentativo il giorno dopo.
Ritornati sul ghiacciaio dopo il tentativo, Dino ed io ci attardammo nel riporre i materiali mentre gli altri due iniziavano a scendere. Quando anche noi ci avviammo ad un tratto scorgemmo Alberto Re seduto sul ghiacciaio che si guardava una mano con aria sconsolata, aveva un dito piegato a 90 gradi. Era scivolato sul ghiaccio, il dito si era infilato tra due sassi e si era rotto. Scendemmo fino alla tendina e cominciammo a dare assistenza al nostro amico. Su indicazioni di Rabbi io preparai una paletta dalla dimensione di una mano con un’assicella ricavata da un contenitore di alimenti mentre lui con determinazione ed abilità degna di un provetto infermiere raddrizzava e sistemava il dito rotto di Alberto. Poi con la paletta che io avevo preparato impalettò e fasciò perfettamente la mano del nostro amico.
Un po’ rincuorato Alberto si avviò verso il campo base mentre Dino ed io ci fermammo a pernottare nella tendina per salire il giorno dopo il Risi Kot II, cima di 6200 m. che non risultava mai salita. Sui pendii più ripidi di quella cima avevamo già piazzato precedentemente alcune corde fisse.
Con Dino ci trovammo accomunati in altre iniziative non prettamente alpinistiche come la realizzazione del celebre Scandere 1979 in un quartetto composto oltre che da me e Rabbi da Roberto Bianco e Gian Piero Motti. Scandere era l’annuario della sezione CAI Torino. Purtroppo scomparso dalle pubblicazioni da molti anni. Altro lavoro realizzato insieme, unitamente a Renato Chabod, è stato l’aggiornamento della guida del Gran Paradiso della collana dei Monti d’Italia nel 1980.
Un episodio drammatico che mette in evidenza l’altruismo e la volontà di Corradino Rabbi è l’incidente occorso a lui e Roberto Bianco al monte Ormelune in Valgrisenche nel maggio 1981.
I due hanno come obiettivo la sciistica di questa cima, le condizioni dell’innevamento non sono ottimali, decidono di salire il pendio finale direttamene, sci a spalle per non tagliarlo con serpentine, giunti quasi in cima Roberto scarica gli sci e di schianto tutto il pendio si stacca, i due sono travolti da una grande valanga. Sono trascinati per oltre 300 metri e saltano anche una barra rocciosa. Durante la caduta perdono i sensi. Quando rinviene Bianco si trova con la testa fuori dalla neve e Dino non si vede, dopo poco tempo vede però la neve muoversi vicino a lui e compare la testa di Rabbi, era rimasto sotto un leggero strato di neve. Con grande fatica riescono ad uscire dalla neve e si rendono conto di essere feriti in modo grave. Bianco non è in grado di alzarsi in piedi (risulterà avere gravi compressioni vertebrali). Corradino riesce a stare in piedi ma a grande fatica, ha lo sterno gravemente danneggiato e risulterà avere anche una compressione vertebrale. E’ chiaro che non possono avere aiuto, nessuno è allertato, bisogna salvarsi da soli, Roberto non è in grado di muoversi e Dino si avvia per cercare soccorsi, il compagno lo vede procedere con estrema lentezza, trascorrono più di due ore prima che scompaia alla sua vista poche centinaia di metri più sotto.
E’ notte fonda quando Dino raggiunge la vettura ma non può usufruirne perché le chiavi sono rimaste nello zaino sotto la neve, deve perciò continuare a piedi lungo il lago fino a Bonne.
Quel giorno a Bonne vi era il soccorso alpino valdostano per delle esercitazioni collettive, alle 6 del mattino la guida Renzino Cosson esce dall’albergo e vede una figura barcollante che si avvicina, è Corradino Rabbi, si è trascinato per 17 ore. Subito scatta l’allarme, Rabbi viene soccorso e trasportato all’ospedale di Aosta e parte la ricerca dell’altro infortunato. Non può intervenire l’elicottero a causa della fitta nebbia sopraggiunta, le guide partono a piedi alla ricerca di Bianco. Intanto Roberto, dubbioso sulla possibilità che Dino riesca a scendere a valle abbandona il luogo dell’incidente e, trascinandosi a 4 zampe riesce a scendere per qualche centinaio di metri. E’ quasi per caso che le guide riescono a trovarlo nella nebbia, grazie ai richiami a voce.
Ugo Manera