Adriano Trombetta - Il ricordo di Ugo Manera
Adriano Trombetta
Il 17 febbraio 2017 Adriano Trombetta, guida alpina, istruttore di alpinismo, veniva travolto da una valanga nel canalone dello Chaberton. Con lui perdevano la vita Margherita Beria, maestra di sci, ed Antonio Lovato istruttore della scuola di alpinismo Giusto Gervasutti.
Pochi giorni prima al cinema Massimo in Torino, in occasione di proiezioni di films del Banff mountain film festival, ci eravamo ancora scambiato allegre battute e punzecchiature.
Adriano era esuberante in molte cose ma io l’ho trovato sempre simpatico e divertente, oltre che scalatore fantasioso di alto livello. Sfogliando i miei numerosi scritti archiviati sul computer ho trovato una mail che gli avevo inviato quale risposta ad una domanda che mi aveva posto.
Da poco aveva ripreso e collegato due vie sulla parete principale dell’Ancesieu nel vallone di Forzo: la “Strategia del Ragno”, capolavoro di Isidora Meneghin, e la sovrastante via “della Sveglia” aperta con me dallo stesso Meneghin. Vie probabilmente irripetute e praticamente abbandonate. Aveva pulito accuratamente le fessure, tolto erba e sterpi, attrezzato le soste lasciando la roccia priva di ancoraggi fissi ovunque fosse possibile proteggersi con ancoraggi mobili. Era risorto così uno dei più belli e difficili itinerari di roccia di tutto il Gran Paradiso, da affrontare nell’ottica più moderna della scalata.
Impressionato dalla linea di queste vie da noi aperte tanti anni prima, Adriano mi aveva scritto chiedendomi quale fosse, a quei tempi, il nostro modo di aprire nuove vie di roccia di elevata difficoltà. Questa era stata la mia risposta.
Il mio modo di aprire
Fin da quando cominciai a ricercare la difficoltà nello scalare montagne, il motivo conduttore della mia attività divenne la scoperta e l’apertura di nuove vie. Posare le mani su un pezzo di roccia mai toccato da altri, piantare i ramponi ed ancorare la picozza su ghiaccio vergine, divennero per me la componente più affascinante dell’alpinismo, e da essa mi sono lasciato condurre per tanti, tanti anni.
Credo di aver operato in un periodo che ritengo fortunato; era finita l’epoca dell’alpinismo eroico, le tecniche della sicurezza nello scalare avevano compiuto grandi progressi, si poteva praticare l’alpinismo estremo senza rischiare continuamente la vita. Per contro esistevano ancora enormi possibilità di trovare pareti vergini ove aprire nuove vie con tecniche più evolute dei nostri predecessori. Eravamo orientati verso una visione più sportiva e meno drammatica dell’arrampicata. Ho raccolto perciò a piene mani su tutto l’arco alpino occidentale, dalla Castello Provenzale alla Valle dell’Orco, dalle valli di Lanzo alle cime del Gran Paradiso, dal Monte Bianco al Monte Rosa. Dalle falesie di bassa quota alle cime più alte.
Gli scalatori delle generazioni successive spesso si sono espressi su pareti che io avevo già vistato con i miei compagni di allora, questo è successo a Manlio Motto ed oggi succede ad uno degli scalatori più attivi: Adriano Trombetta. Adriano ha 40 anni meno di me, insieme abbiamo tentato, qualche anno fa, di concludere senza successo la via “Incompiuta” di Meneghin e mia sulla parete delle Aquile, vicenda divertente che ho già avuto modo di raccontare.
Ora Adriano si è appassionato alla parete principale dell’Ancesieu nella valle di Forzo, interesse facile da capire vista l’imponenza e la bellezza di quella parete. Ha ripercorso e pulito accuratamente la combinazione della “Srategia del Ragno” (capolavoro di Isidoro Meneghin) con la sovrastante “via della Sveglia” aperta da Isidoro e da me. Entusiasta dell’opera compiuta mi ha contattato più volte e mi ha posto varie domande alle quali rispondo illustrando il mio modo di aprire; metodo condiviso dai miei principali compagni di allora che sono stati: Isidoro Meneghin, Claudio Sant’Unione, Franco Ribetti.
Nella mia carriera lavorativa, iniziata a 14 anni, c’è un passato di battilastra in carrozzeria per cui l’arte dell’uso del martello non aveva segreti per me. Negli anni nei quali avevo arrampicato e aperto vie con Gian Piero Motti, insieme, avevamo studiato come riuscire a realizzare chiodature “impossibili” ed avevamo messo a punto un metodo di schiodatura rapido ed inesorabile, nessun chiodo resisteva. Così negli anni a seguire, con Claudio, Isidoro, Franco ed altri, la nostra regola divenne quella di non lasciare nulla in parete (qualche chiodo fu lasciato quando appariva evidente che insistendo si causava la rottura del chiodo stesso). Le nostre vie si caratterizzavano da un ometto di sassi alla base (quando era possibile) e da una precisa relazione tecnica che io sempre mi premuravo di pubblicare e divulgare. Io non ero geloso delle mie vie, anzi ero felice se qualcuno le ripeteva, i ripetitori dovevano però trovarle nelle stesse condizioni che le avevamo trovate noi.
Io non seguivo delle regole etiche vincolanti, ho deprecato le super direttissime a chiodi a pressione con il conseguente “assassinio dell’impossibile” così fortemente condannato da Messner, ma non mi scandalizzavo certamente per l’uso di qualche chiodo a pressione. Perché toglievo allora tutti i chiodi impiegati? Innanzitutto perché chiodo che si ricupera serve per un’altra via, quindi un fattore di economia, sia di costo che di fatica per il trasporto del materiale negli avvicinamenti e in parete. Poi veramente desideravo che i ripetitori si ritrovassero nelle mie stesse condizioni con l’unico vantaggio di sapere che la via esisteva e di essere in possesso di una relazione tecnica.
Un discorso particolare riguardava invece l’uso di chiodi a pressione e relativo perforatore. Io avevo usato una sola volta il perforatore quando avevo aperto nel 1973 la “via della Rivoluzione” al Caporal con Motti; era toccato a me infiggere i cinque “pressione” impiegati nell’apertura. Dopo quella esperienza non portai mai più con me il perforatore. Come ho già accennato ero un esperto di chiodature difficili, l’unico che competeva con me era Meneghin, affrontare perciò delle strutture rocciose problematiche era una sfida all’impossibile ed una sfida a noi stessi in qualità di raffinati chiodatori, sfide che ci esaltavano ed entravano a pieno titolo a dare un senso alla nostra avventura. Debbo dire che a consuntivo di una carriera conclusa ormai da un pezzo (almeno per quanto riguarda l’apertura di vie difficili), due sole volte non sono riuscito a passare ed ho dovuto ripiegare: negli ultimi 20 metri della via Incompiuta alla Parete delle Aquile e sulla Tour de Jorasses, dopo il diedro a banana della via che poi divenne, qualche anno dopo, “Etoilles Filantes di Piola.
Quando nel 1981 si trattò di affrontare quella mitica montagna che è il Changabang, con tutte le incognite che questa sfida comportava, non prendemmo neanche in considerazione di dotarci di perforatore e chiodi a pressione, cinque anni prima su quella stessa montagna avevo visto lo scempio perpetrato dai giapponesi sullo spigolo ovest sud ovest con enorme impiego di chiodi a pressione per cui decidemmo che o eravamo capaci di passare con mezzi tradizionali o quella montagna non era per noi.
Caro Adriano ho risposto esaurientemente alle tue domande? Con i miei saluti e complimenti.
Ugo Manera
In precedenza avevo vissuto una divertente avventura con Adriano, vicenda che mi fa piacere di ricordare ancora una volta; anche perché, recentemente, la via in oggetto è stata nuovamente tentata da due nostri bravissimi giovani istruttori. Ed è rimasta ancora incompiuta!!! Ad una prossima volta….
….. e rimase Incompiuta
La via “incompiuta” alla Parete delle Aquile (Dirupi di Balma Fiorant)
Nel 2004 mi trovavo in numerosa compagnia sulle rocce del Caporal per girare le riprese del documentario “Cannabis Rok”. Il gruppo era composto dal sottoscritto e da Piero Pessa in veste di attori, e da cineoperatori assistiti da due guide: Enzo Luzi ed Adriano Trombetta. Le riprese furono effettuate sulla via “del Sole Nascente”, la bellissima e mitica via aperta da Mike Kosterlitz, Gian Carlo Grassi e Gian Piero Motti nel 1973. Per due giorni lavorammo con il bel tempo ed in grande allegria; al termine delle riprese, in cima al Caporal, sostammo ad ammirare e commentare le pareti che ci circondavano. La Parete delle Aquile spiccava proprio di fronte con le sue strutture evidenziate dalle ombre pomeridiane, raccontai ad Adriano delle vie che vi avevo aperto soffermandomi sulla storia della via “Incompiuta” e manifestando il mio rammarico per non averla completata. Gli indicai dove passava poi scendemmo a valle con tutto l’armamentario utilizzato nelle riprese.
La via Incompiuta risaliva al 1979, allora arrampicavo stabilmente con Isidoro Meneghin, avevamo setacciato in lungo ed in largo i Dirupi di Balma Fiorant alla ricerca di nuovi itinerari da aprire. Ci aveva colpito, nella parte destra della parete, una zona di rocce rosse, in gran parte strapiombanti. Era evidente, osservandolo dal basso, che si trattava di un problema di difficile soluzione e che sicuramente avrebbe richiesto dell’arrampicata artificiale molto sofisticata. Pur tuttavia decidemmo di provare armati di tutti gli aggeggi allora conosciuti ad eccezione di punteruolo e chiodi a pressione, attrezzi che, di comune accordo avevamo deciso di mai impiegare.
Dovemmo ricorrere a tutta la nostra abilità per superare i tratti in artificiale, nella nostra ormai vasta esperienza in questo tipo di scalata non avevamo mai trovato tratti così impegnativi. Con le classificazioni di allora, decidemmo di quotare l’artificiale fino al A4, grado di difficoltà che fino ad allora non avevamo mai usato nelle vie da noi aperte.
Riuscimmo a passare ma una sgradevole sorpresa ci attendeva al termine. Superati strapiombi e fessure ci trovammo alla base di una placca a 20 metri dalla sommità della parete. Non appariva neanche estrema ma era compatta senza nessuna fessura o incrinatura che la incidesse.
Provammo in tutti i modi ma senza praticare dei buchi non c’era nessuna possibilità di assicurarsi; non potevamo certamente affrontare il rischio di salire per circa 20 metri senza alcuna protezione. Amareggiati ripiegammo in corda doppia e la via rimase “Incompiuta”.
Passò l’estate ed un giorno, diretto ad arrampicare a Frassiniere nel Briançonnais, passando sotto le pareti mi sentii chiamare, alzai gli occhi e scorsi Adriano Trombetta appeso sotto un grande strapiombo mentre provava un tiro di elevata difficoltà; mi urlò che era andato a provare la via “Incompiuta” alla Parete delle Aquile ma non era riuscito a passare. Molto incuriosito attesi il suo ritorno a terra e mi feci raccontare del suo tentativo.
Conquistato dal mio racconto, fatto sulla cima del Caporal, era andato a provare la nostra via con un amico. Aveva superato la prima lunghezza di corda in arrampicata libera dove io ero salito in artificiale, si era preso qualche rischio perché non riuscendo ad infiggere chiodi, era partito in libera sulla placca allontanandosi dal fondo del diedro e per almeno dieci metri non era riuscito a piazzare protezioni. Alla seconda lunghezza di corda però erano stati respinti, Adriano non era riuscito a raggiungere il vecchio chiodo Cassin da noi lasciato 25 anni prima e che rappresentava l’unico ancoraggio sicuro che Isidoro era riuscito a piazzare in quella lunghezza estrema. Trombetta era ridisceso e, deciso a ripetere il tentativo con materiale più sofisticato, aveva lasciato una corda fissa sulla prima lunghezza di corda.
Tra Adriano e me ci sono 40 anni di differenza e sentire raccontare da lui, talento emergente dell’alpinismo, di uno scacco subito su una mia via, fece balenare in me un lampo di orgoglio e mi vidi proiettato all’indietro a battagliare con Isidoro su quelle rocce. D’istinto proposi al giovane amico di andare a ripetere il tentativo insieme, precisando però che il mio ruolo sarebbe stato quello di “spalla” non essendo ormai più in grado di fare il protagonista su quelle difficoltà.
Detto fatto, qualche giorno dopo salivamo carichi di pesanti sacchi di fianco al Caporal, nel canalone che porta alla Parete delle Aquile. Quante volte avevo salito quella pietraia, sempre con qualche progetto nuovo in testa, verso avventure che mentre salivo lentamente mi ritornavano in mente nei minimi particolari. Ricordi rievocati con un sottile velo di nostalgia.
Giungemmo alla base della parete nel punto che io ben ricordavo, la corda lasciata da Adriano penzolava lungo il diedro della prima lunghezza e noi la risalimmo con gli autobloccanti; Adriano si sistemò in dosso il materiale da scalata e si avviò verso il passo che lo aveva respinto. Si era portato il trapano ed alcuni “fix” per attrezzare le soste e per piazzare le protezioni lungo la placca finale che aveva fermato Isidoro e me. La roccia, nel tratto che aveva respinto il tentativo di Adriano, oltre ad essere strapiombante e priva di fessure, è anche friabile; il mio giovane amico ne stacco dei pezzi mentre cercava di fissare qualche cosa per progredire. Io, attento ad arrestare eventuali cadute per la possibile fuoriuscita di ancoraggi precari, osservavo anche i materiali che impiegava: i “clif” e le “rurp” le usavo anch’io ai miei tempi, le ancorette invece non le avevo mai impiegate; ciò che notavo di molto diverso erano le staffe: io usavo staffe con tre gradini, raramente quattro, e cercavo di salire quasi sempre anche sul primo gradino; ora vedevo che le staffe moderne hanno molti gradini, questi sono molto vicini. Nell’artificiale moderno si usano spesso ancoraggi aleatori per cui le sollecitazioni debbono essere molto soft, cosa non garantita dalla nostra tecnica che era più rude. Il tempo scorreva, il mio compagno saliva lento ed ogni tanto invece di Adriano mi sembrava di rivedere Isidoro con il suo casco appeso alla cintura (male lo sopportava in testa) ad imprecare perché la roccia lo respingeva.
Adriano superò il punto che lo aveva fermato nel suo primo tentativo, raggiunse il nostro vecchio chiodo ancora saldo, e sempre costretto al massimo dell’impegno, riuscì ad ultimare la difficile lunghezza. Io lo raggiunsi passando con difficoltà da un ancoraggio all’altro e ricuperando tutto il materiale tranne il nostro vecchio chiodo.
Un tratto poco difficile ci consentì di raggiungere lo strapiombo che difende l’accesso alla fessura finale; due vaghi diedri privi di fessure lo solcano, qui la roccia è perfetta, mancano solo le fessure, mi ricordavo che in questo tratto ero dovuto ricorrere a tutta la mia “arte” di chiodatore per riuscire a salire. Anche Adriano si impegnò al massimo per infiggere qualche cosa in quelle rughe superficiali ma comunque salì e raggiunse la base della fessura finale. Il tempo era però volato e quando lo raggiunsi era ormai tardi, difficilmente saremmo riusciti a giungere in cima prima di sera.
Decidemmo di ripiegare lasciando delle corde fisse per poi ritornare a completare l’opera. Fissammo saldamente le corde che dovevano rimanere in parete e ridiscendemmo alla base.
Le cose però non andarono secondo le nostre intenzioni: Adriano si infortunò ad un ginocchio, subì un intervento che lo costrinse ad un periodo di inattività così non ritornammo più. Sulla Parete delle Aquile sono rimaste le nostre corde ormai inutilizzabili e la via continua ad essere incompiuta. Non mi sento neanche troppo dispiaciuto per questa conclusione, in fondo ho rivissuto una vecchia avventura in chiave moderna ed il punto interrogativo è ancora là, forse qualcuno troverà la voglia di andare a cancellarlo.
In fine non mi rimane che formulare una considerazione: nel 1979 in un giorno avevamo aperto la via salvo gli ultimi pochi metri, 25 anni dopo, in due tentativi non si era giunti ove eravamo arrivati allora, è probabile che la nostra “Incompiuta” sia la più difficile via in artificiale aperta sui dirupi di Balma Fiorant prima dell’avvento dell’artificiale moderno di Valerio Folco.
Ugo Manera (IA - CAAI)