Personaggi: Isidoro Meneghin (Isi)
Accademico del CAI, istruttore della scuola, caduto nel 1989 durante una scalata di allenamento in solitaria alla Rocca Sbarua.
Il ritratto inedito di un "personaggio difficile da scoprire probabilmente a causa della sua estrema riservatezza" tratteggiato dalla penna asciutta di Ugo Manera
Conobbi Isidoro Meneghin attraverso Mariangelo Cappellozza: mio compagno in varie scalate verso la metà degli anni ’70. Mariangelo era un personaggio fuori dall’ordinario (in fondo lo siamo un po’ tutti noi scalatori); era un “contestatore gentile” nel senso che non accettava nulla di costituito ma metteva in discussione tutto, e in particolare ogni autorità predefinita; nello stesso tempo era sempre corretto nelle sue espressioni, non usava mai termini volgari, era, a suo modo, religioso e si era formato nello scoutismo.
Venne attratto dalla montagna e dall’alpinismo così approdò, come allievo, alla scuola Gervasutti. Entrato nella scuola cominciò a mettere in discussione un po’ tutto in modo tra il canzonatorio e l’umoristico, ma sempre con la massima correttezza. Era uno sportivo atleta ed eccelleva in varie attività, in particolare nel nuoto. Con la scalata aveva però fatto i conti senza l’oste: convinto di eccellere da subito come aveva fatto con altri sport, con l’arrampicata si spuntò le corna in alcune occasioni affrontate un po’ troppo spavaldamente.
Una volta, in una uscita della scuola, volle affrontare da primo una via con un muro dato di 6° grado che io avevo superato guidando la cordata che lo precedeva; a metà del muro si trovò bloccato senza saper come fare ne in salita ne in discesa. Io, che avevo previsto questa situazione ed attendevo alla sosta, gli chiesi ridendo se voleva la corda, a denti stretti disse di si e quell’episodio originò in lui una esagerata ammirazione nei miei confronti, ammirazione espressa però sempre in modo tra il canzonatorio e l’umoristico. Era comunque bravo e prometteva bene così io, che ero costantemente alla ricerca di compagni di cordata disposti ad assecondare i miei numerosi progetti, non esitai a reclutarlo ed insieme compimmo tante ascensioni alcune delle quali di grande impegno. Mariangelo era intelligentissimo e con il suo atteggiamento di “ bastian contrario” per tutto ciò che puzzava di conformismo, ne combinò di tutti i colori. Magari un giorno mi metterò a raccontare qualcheduna delle sue divertenti avventure/disavventure.
Nel corso delle scalate e nei lunghi bivacchi in parete parlavamo di tutto ma principalmente di pareti e di alpinisti. Mariangelo mi raccontò di un suo amico, più o meno suo coetaneo, che aveva avuto due seri incidenti in montagna con fratture varie, uno dei quali scendendo a piedi dal rifugio Torino per evitare la spesa della funivia, ma dai quali si era ripreso bene continuando a scalare con grande impegno. Il suo nome era Isidoro Meneghin e Capellozza me lo descrisse come un ragazzo determinato e molto preparato tecnicamente. La descrizione fatta dal mio amico suscitò in me il desiderio di conoscerlo. Mariangelo stava entrando in crisi con l’alpinismo, non era soddisfatto del livello raggiunto da capocordata e mi fu evidente che presto avrei perso il mio divertente compagno di cordata. Un po’ deluso dal suo alpinismo, era sempre più attratto da altre attività che riusciva a padroneggiare di più: nell’acqua si sentiva un padreterno e nell’acqua perse la vita durante un’immersione solitaria in apnea.
Proposi a Mariangelo di combinare una salita con il suo amico Isidoro e così, in una magnifica mattinata autunnale, con le cime già imbiancate dalla prima neve, ci trovammo in tre a salire di buon passo da Mondrone verso il colle dell’Ometto, diretti a ripetere il “Pilastro Silvia”: una via aperta da Paolo Armando sui pilastri di Sea dell’Uja di Mondrone. Camin facendo i discorsi erano i soliti di quelle occasioni: scalate compiute, progetti di ascensioni, dissertazioni sulle difficoltà delle vie, commenti su personaggi e avvenimenti del mondo della montagna. Nel chiacchierare su tali argomenti osservavo i miei giovani compagni; in Mariangelo notavo un declino della passione per l’alpinismo, non trovava più la concentrazione per affrontare scalate difficili, il profondo legame di amicizia che ci legava non era più sufficiente a spingerlo a condividere con me le avventure che avevo in mente. Tutt’altra impressione mi fecero i discorsi di Isidoro: mi apparve motivato al massimo, con un grande desiderio di affrontare la montagna a tutto campo.
Scalammo il pilastro “Silvia” velocemente e l’azione confermò le idee che mi ero fatto durante l’avvicinamento: Mariangelo si dimostrò indeciso e poco determinato; Isidoro invece, brillante e motivato, mi colpì positivamente anche per la sua abilità nelle manovre tecniche ed in particolare nella posa degli ancoraggi e nell’uso dei chiodi da roccia. Di ritorno dalla divertente salita, ci ripromettemmo di tornare a scalare insieme; fu l’atto di apertura di un capitolo denso di importanti realizzazioni.Quando, con Gian Piero Motti, avevo cominciato a setacciare le valli alla ricerca di nuove pareti, avevo fatto una scoperta che mi aveva sorpreso, vista la mia predilezione per l’alta quota: mi resi conto che in me era sorta la convinzione che ogni pezzo di roccia, ovunque si trovasse, era degno di essere scalato. Questa convinzione scoprii che era ampiamente condivisa da Isidoro Meneghin ed insieme ci spingemmo a cercare il nuovo a tutto campo senza disdegnare luoghi che all’apparenza risultavano poco invitanti come la Parete Nera di Caprie, nella bassa valle di Susa.La sensazione che ho sempre avuto in tante ore trascorse con Isidoro è stata quella di un solitario in ogni sua manifestazione. Ha realizzato innumerevoli ascensioni solitarie, prevalentemente in apertura di nuove vie, a volte su strutture rocciose poco invitanti che non erano mai state prese in considerazione da nessuno come ad esempio: il Torrione di Campambiardo, la Parete Bianca di Caprie e la Parete del Deir Bianco (come la chiamava Isidoro), oggi rinominata Parete dei Corvi, sopra Pont Canavese. E’ stato per me un ottimo compagno, non solo di cordata, ma anche nelle tante ore di inattività, durante i numerosi viaggi e nei tanti lunghi bivacchi che abbiamo trascorso in parete. Non parlavamo solo di alpinismo e di scalate, Isidoro era intelligente ed osservatore ed i nostri discorsi spaziavano dai temi socio-politici a quelli scientifico-culturali. Non raccontava mai delle sue vicende personali intime, del resto anch’io sono sempre stato piuttosto riservato su tali temi. Qualche volta mi aveva parlato all’attività di suo padre che era numismatico e filatelico e gestiva un negozio di questi articoli da collezione in via Po a Torino. Lui aveva però scelto un altro sbocco professionale. Io, come è nel mio carattere, ho sempre rispettato la sua riservatezza e non gli ho mio fatto domande sugli aspetti della sua vita che esulavano dall’alpinismo, ne lui mi ha mai raccontato gran che dei fatti suoi al di fuori dell’attività che svolgevamo insieme.
Ho sempre avuto l’impressione che lo spaventasse il contatto fisico con altri: nei bivacchi in parete in genere ci si rannicchia stretti vicino l’uno all’altro e perché gli spazi sono sempre estremamente esigui, e per cercare di scaldarsi a vicenda. Isidoro invece, anche nelle situazioni più critiche cercava, per quanto possibile, di crearsi un suo spazio personale isolato, a volte con lunghi e meticolosi lavori di sbancamento su microscopici terrazzini. Una volta, nell’apertura di una nuova difficile via sulla parete Est del Mont Greuvetta eravamo in tre: Isidoro, Franco Ribetti ed io; al termine di un giorno di arrampicata impegnativa ci fermammo su delle microscopiche cenge. Dopo esserci assicurati Franco ed io velocemente ci sistemammo con i piedi infilati nello zaino, ci coprimmo di tutti gli indumenti che avevamo appresso e ci apprestammo a consumare quel poco cibo che avevamo con noi. Due metri alla nostra sinistra Isidoro continuava a trafficare rimuovendo sassi quasi appeso a due chiodi che aveva infisso. Franco, che non aveva mai scalato in precedenza con Isidoro, mi chiese: << Ma cosa sta facendo? >>. Gli risposi sorridendo: << Non preoccuparti, come sempre sta cercando di crearsi la sua camera singola >>. Nel corso di un’uscita della scuola Gervasutti di due giorni a Finale Ligure, volutamente gli facemmo uno scherzo: chi si era preoccupato della sistemazione per la notte gli aveva assegnato un letto matrimoniale con un altro istruttore: una tragedia, Isidoro era disperato per quella situazione mentre tutti noi ridevamo alla grande, prese le sue cose ed andò a trovarsi un angolo scomodo ma appartato.
Le fobie di Isidoro non mi disturbavano, tuttalpiù ci sorridevo sopra, quello che ha sempre contato per me è che era un compagno assolutamente affidabile, sincero e disponibile a qualsiasi impresa, purché fosse indirizzata a risolvere qualche nuovo problema o quantomeno a percorrere vie mai salite da scalatori italiani e pareti misteriose da riscoprire. Abbiamo scalato insieme anche vie classiche celebri come la Cassin alla Torre Trieste ed altre, ma poche rispetto alle tante vie nuove aperte.
I nostri obiettivi comuni non erano solo indirizzati verso le grandi montagne ma spaziavano verso ogni forma rocciosa che promettesse dure battaglie ai limiti delle nostre possibilità.
Il nostro rapporto di compagni di cordata era impostato all’assoluta onestà: Isidoro conosceva perfettamente i propri limiti, sensibilità acquisita probabilmente in tante salite solitarie, arrampicavamo sempre a comando alterno ma quando il terreno non gli era congeniale, non esitava a cedermi la guida sobbarcandosi le fatiche ed i disagi del secondo di cordata. Eccelleva nell’arrampicata su roccia e particolarmente in fessura e nell’artificiale sofisticato. Era meno brillante sul misto e su ghiaccio e quando si presentavano questi terreni non esitava ad invitarmi a procedere da primo senza alcun timore che venisse intaccato il suo prestigio. Lo convinsi a fare domanda di ammissione al Club Alpino Accademico nel quale venne accolto senza problemi data la sua eccezionale attività. Impiegai un po’ più di fatica a portarlo nella scuola Gervasutti come istruttore, ma poi si trovò bene ed assunse anche la direzione del secondo corso.
Malgrado i nostri continui contatti per la grande attività che svolgevamo insieme, egli aveva i suoi progetti che mi escludevano e che portava avanti senza parlarmene. Quando mirava ad un progetto che immaginava non fosse di mio interesse non me ne parlava, limitandosi a raccontarmi qualche cosa a progetto realizzato. Cosi avvenne quando effettuò la prima solitaria della Pala di Gondo restando in parete più giorni, rischiando di schiattare di sete per una valutazione errata della scorta di acqua necessaria. Mi raccontò di questa sua impresa proprio per descrivermi le sofferenze patite per la sete. Quasi analoga le storia dell’Acesieu, un giorno salendo per lo sconosciuto vallone di Lasinetto, tributario del Vallone di Forzo, alla ricerca di una altrettanto sconosciuta Punta Perra, che sembrava presentasse una parete vergine, ad una svolta del quasi dismesso sentiero, posammo lo zaino per prendere fiato: di fronte a troneggiava la formidabile parete dell’anticima dell’Ancesieu. Espressi apprezzamento ed interesse per quella parete, Isidoro mi guardò sorpreso: << credevo non fosse il tuo genere >> esclamò; e mi raccontò il suo ingresso nella storia dell’Ancesieu. Da anni due nostri amici conducevano in gran segreto dei tentativi sulla parete della cima principale, ma erano sempre fermati da un tratto per loro insuperabile; uno di loro: Antonio Cotta, sempre in segreto, chiese aiuto ad Isidoro che risolse il problema tracciando la via “Strategia del Ragno”. Meneghin, viste le enormi possibilità dell’Ancesieu, senza confidare niente a nessuno, trovò l’accesso alla parete dell’anticima, più imponete ancora di quella della cima principale, e vi portò alla base del materiale. Visto che la parete presentava troppe incognite per essere tentata in solitaria era in attesa di trovare un compagno discreto per avviare i tentativi. Costatato il mio interesse, nell’inverno seguente demmo inizio alle operazioni che si conclusero in tre tentativi tracciando una via eccezionale senza uso di chiodi a pressione. Trascinati dall’entusiasmo ritornammo successivamente sulla parete della cima principale a raddrizzare la “Strategia del Ragno” tracciando la “Via della Sveglia”.
Numerose sono state le realizzazioni compiute in cordata con Isidoro, da soli o in collaborazione con un’altra cordata. Non sto ad elencarle tutte, ne citerò qualcuna significativa come: l’apertura della via “dei Dilettanti” al Pilastro Rosso del Brouillard, la prima della via “Diretta della Torre Staccata” al Valsoera, la prima della parete Sud della Punta Brendel alla Sud della Noire, una nuova via sulla parete Sud Est delle Petites Jorasses, la prima della parete Sud del Gran San Pietro, l’apertura della via del “Plenilunio” alla Parete delle Aquile, la prima italiana della severa via Couzi- Desmaison alla Nord dell’Olan e tante altre.Nel corso del 1980 si concretizzo il progetto di una importante spedizione himalayana : tracciare una nuova via sul Changabang, straordinaria e difficile cima, divenuta celebre per alcune imprese, sulle sue pareti, tra le più difficili fino ad allora compiute in Himalaya. Erano realizzazioni portate a termine da scalatori che di fatto praticavano l’alpinismo come professione mentre noi eravamo un gruppo di “dilettanti” e senza esperienza Himalayana.
L’attività svolta da Isidoro con me nelle stagioni precedenti la spedizione doveva anche contribuire a formare in noi una mentalità vincente atta ad affrontare ogni situazione, da qui la ricerca quasi ossessiva di “prime” a tutti i costi, meglio se con tante incognite. Queste salite mi portarono a considerare Isidoro il mio compagno di cordata naturale per affrontare il Changabag. Le cose però non andarono in realtà come me le ero immaginate.
La vita di spedizione, specie in un gruppo numeroso, ti obbliga a condividere tempi e cose con tutti gli altri componenti, poche sono le possibilità di ritagliarti uno spazio personale. Con rammarico, nei giorni della marcia di avvicinamento, vidi emergere un Isidoro che non mi aspettavo; i suoi problemi a inserirsi nella vita di gruppo saltarono fuori fin dall’inizio: non trovava più la possibilità di ritagliarsi il suo angolino da solitario, troppe erano le cose che doveva condividere con gli altri. Si chiuse in se, pareva che il suo obiettivo principale fosse slittato dal Changabang alla difesa delle sue piccole “ancore” di sopravvivenza giornaliera: la bustina di caffè, lo zucchero, il posto appartato per dormire. Quando arrivammo al campo base ebbi la sensazione che il forte e brillante compagno di tante salite non ci fosse più, che si fosse sempre di più autoemarginato. Gli avvenimenti confermarono questa impressione. Non si propose mai per partecipare all’azione diretta e svolse un lavoro oscuro trasportando i materiali dal campo base a quello posto sotto la parete. Solo il giorno successivo alla conquista della cima salì da solo fino al termine delle corde fisse, raccolse i nostri richiami mentre stavamo scendendo e discese a comunicare agli altri la notizia del successo.
Mentre io avevo vissuto l’avventura del Changabang come una bella ed esaltante esperienza temo che per Isidoro sia stato invece l’opposto e questo fu per me l’unico punto negativo perché li si determinò la fine del sodalizio alpinistico con lui. La sua assenza a partecipare alla vita della spedizione originò in me un senso di delusione che impedì, dopo il Changabang, la ricomposizione della nostra cordata. Effettuammo ancora delle scalate insieme, ma non fu come prima, in quelle salite vi erano sempre altri compagni e quando il numero era pari, Isidoro non si legava più con me. Questa rottura avvenne silenziosamente e senza nessuna spiegazione, la colpa fu certamente mia ed in seguito me ne sono rammaricato più volte, soprattutto perché credo Isidoro non l’abbia voluta e ne abbia sofferto.
L’attività di Isidoro continuò intensa come quando scalavamo insieme; aprì numerose nuove vie, spesso ancora in solitaria o con vari compagni tra i quali Gian Carlo Grassi con cui aprì una grande via sul Picco Gugliermina, di fianco alla via Gervasutti. Condussi un giorno questi due amici a fare conoscenza con una parete che io avevo scoperto: la Parete del Camoscio Cieco nel Gran Paradiso, fu non molto tempo prima della loro scomparsa. Grande fu anche la sua attività di scoperta nel magnifico vallone di Noaschetta, prima con me, poi con Grassi ed altri.
Isidoro aveva i suoi metodi di allenamento, tra questi quello di scalare in autoassicurazione vie di falesia. Saliva in cima per sentiero poi scendeva la via prescelta in corda doppia; ad ogni calata, prima di ritirare le corde, risaliva in arrampicata il tiro autoassicurandosi alle corde della doppia. Ridiscendeva in doppia, ricuperava le corde e ripeteva l’operazione per il tiro più in basso, così via fino alla base. Così fece probabilmente quel triste giorno sullo sperone Rivero alla Sbarua. Lo trovarono morente avvolto nelle corde alla base della parete. Forse ricuperando una doppia, trovandosi su una cengia ampia, non si autoassicurò; per qualche motivo perse l’equilibrio e precipitò trascinandosi le corde.
Io ero a casa quando mi telefonò Franco Ribetti dicendomi che un amico (non mi ricordo più chi) gli aveva telefonato dalla Sbarua dicendogli che Isidoro era stato trasportato gravissimo al CTO. Ci precipitammo all’ospedale dove c’erano i genitori e la sorella (medico) che ci disse subito che c’erano poche speranze per il fratello; morì infatti poco dopo mentre lo trasferivano in un altro reparto.
Il ricordo di Isidoro è sempre vivo in me, è stato grande scalatore ed un grande compagno di cordata. Un personaggio difficile da scoprire probabilmente a causa della sua estrema riservatezza. Mentre, come succede a me, in genere le grandi avventure ti portano ad avere il desiderio di condividerle attraverso il racconto e soprattutto alla scrittura, Isidoro forse le viveva ancora più intensamente di me, ma se le teneva per se. Non ricordo di avere mai letto il racconto di una ascensione scritto da lui eppure egli archiviava meticolosamente tutto con la sua estrema precisione. Egli stendeva una dettagliata relazione tecnica di tutte le nuove vie aperte ma non le divulgava. Forse c’è una unica eccezione fatta per Gian Carlo Grassi per la pubblicazione di “Sogno di Sea” dove Isidoro ha fornito le relazioni delle vie aperte in Sea. Delle tante vie aperte insieme la pubblicazione della notizia e della relazione tecnica era sempre demandata a me e naturalmente io passavo una copia a lui della relazione che avevo steso. Ogni volta però, senza dirmi nulla, egli stendava una sua relazione tecnica (non dissimile dalla mia) che non diffondeva ma archiviava gelosamente nel suo dossier. In quel dossier voluminoso tante relazioni tecniche delle vie aperte in prima ascensione, fotografie, molte fatte da me, note di carattere tecnico sulle manovre di corda, una lettera di Gian Piero Motti scritta a me e che io avevo passato a Isidoro perché riguardava osservazioni sulla ripetizione di una via alla Parete Nera di Caprie che avevamo aperto insieme, ritagli di giornali, fotocopie di pubblicazioni. Mancano totalmente delle note personali relative ai documenti che vi sono raccolti.
Dopo la sua morte raccolsi le fotografie di Isidoro, ne feci delle copie le consegnai a suo padre nel negozietto di via Po che oggi non esiste più.
Isidoro Meneghin fu tra i più produttivi tra gli scalatori torinesi a cavallo degli anni ’70 e ’80, era noto per le relazioni delle sue vie nuove comparse su guide e riviste, ma poco conosciuto per il suo effettivo valore come scalatore, questo probabilmente a causa della sua estrema riservatezza.
A lui ho dedicato una bella via su una sperduta parete: l’Avancorpo della Mare Percia nel Gran Paradiso, un luogo che gli sarebbe certamente piaciuto: la via “Isi”.
Ugo Manera (IA - CAAI)