Alaerru
Lentamente il grande portellone si abbassa, comincia a intravedersi una lingua di cielo, poi le infrastrutture del porto, infine la luce del sole inonda il grande garage della nave.
I motori delle auto si risvegliano, qualche pirla ha anticipato l’accensione di qualche minuto come se questo potesse accelerare la discesa ottiene, diversamente, il solo risultato di ricevere male parole di chi in Sardegna è già venuto e conosce i tempi per essere vomitati da questo piccolo inferno di rumori, voci, stridii di gomme, odori nauseanti e facce provate da una notte di mare mosso.
La strada per uscire dal porto cambia ogni anno ma le indicazioni sono precise, guido tranquillo e mi godo il lento scorrere del territorio che mi è familiare, quando usciamo dalla superstrada in direzione Dorgali, dopo qualche minuto, ecco il Supramonte di Oliena, ecco adesso siamo in Sardegna.
Sono al mio sessantesimo o poco più, viaggio in Sardegna, quante volte ho fatto questo pellegrinaggio per rivitalizzare le mie radici?
Da piccolo mio padre mi portava al porto di Genova, dopo un viaggio in treno eterno perché non aveva ancora acquistato l’agognata Fiat 850 che avrebbe permesso, qualche anno dopo, di portare in un colpo solo, tutta la famiglia al Paese.
Portavo il biglietto nella tasca del giubbotto, legato a un cordino sottile per non perderlo, intanto mio padre scrutava i passeggeri sul molo, di solito, se non era un parente o un suo cugino che si prestava a “custodirmi” nel viaggio sulla nave, era un amico fidato.
A Porto Torres Ciabatta, fratello di mio padre ed unico ad avere la macchina allora, mi aspettava per prendermi e portarmi in Paese.
Il viaggio durava un’ora e mi depositava davanti alla casa dei nonni paterni.
Sull’uscio nonna Serafina mi aspettava e appena scendevo dall’auto, allargava le braccia per poi stringermi forte, forte!
Mi vedeva solo una volta all’anno e quindi doveva condensare in tre mesi il suo affetto per me e per mio padre (ero pur sempre il figlio maschio del primogenito della famiglia! Cose che, da queste parti, contavano ancora).
Dopo questa accoglienza entravo in casa e, come ogni anno, nonna aveva preparato il mio piatto preferito, non aveva importanza a che ora era della giornata fossi arrivato: in tavola apparivano due uova fritte nel lardo e affogate in un mare di cipolle, le avrei mangiate così per almeno un paio di volte alla settimana per tre mesi.
Le mie vacanze erano fantastiche: dalla fine della scuola alla prima settimana di Ottobre, la mia vita trascorreva in Paese, facevo il pastore, il barista, il venditore di acque minerali….e vivevo, vivevo l’infanzia più bella che potessi desiderare.
Andavo anche al mare, un mare ancora più bello e selvaggio di quello di oggi, vivevo a casa dei nonni, sapevo tutto quello che occorreva sapere sull’ovile, gli asini e i cavalli, perché quello era il mondo che sognavo, ma sapevo anche fare la “bicicletta” (gazzosa e birra insieme) al Bar di Ciabatta e alla sera, prima di chiudere il bar, mangiavo di nascosto le ciliegie sotto-spirito sino quasi ad ubriacarmi. Al mattino alle 5 partivo per l’ovile con il mio zio preferito, Bannela, in Lambretta , sellavo “chipudda” (cipolla), l’asino di nonno e tutta la mattina, andavo in lungo e in largo per l’ovile spostando le pecore da un pascolo all’altro, andando a prendere l’acqua alla fonte, o a chiudere un passaggio della “tanca” del vicino.
Ci siamo fermati a pisciare.
Non abbiamo fretta e la pausa diventa più lunga, mi piace guardarmi intorno, riconosco i colori della campagna, i profumi della macchia, guardo un gregge lontano, mi arrivano i ricordi di quando ero bambino: mi vedo servo-pastore per gioco, sento le voci dei miei che mi chiamano, le urla del vento che passa nella pinnetta, rammento i rumori terrificanti degli animali la sera che sono rimasto da solo all’ovile.
Chiedo al Diretur se, secondo lui, anche io mi posso considerare un migrante, non mi risponde sta sfogliando la guida per capire che via fare appena saremo arrivati. Me lo chiedo da tanto tempo se sono un migrante anche io, io che sono nato in questa terra ma a due anni ero già un continentale. Mio padre sicuramente si, lui era un migrante, ha sempre sognato di ritornare in Paese, se il tumore lo avesse lasciato vivere qualche anno in più, lo avrebbe fatto. Si lui si sentiva migrante lo è stato ancora di più quando si è fatto promettere che voleva essere seppellito in Paese e me lo ha chiesto mentre stava morendo in un letto di ospedale. Tornare nella terra che ti ha partorito è un desiderio che puoi avere solo se rimani migrante.
Siamo sbarcati da due ore ma vogliamo scalare che le gambe, a forza di stare ferme, si sono persino intorpidite.
Il nostro programma prevede la via L’ALCHIMISTA alla scogliera di Biddiriscottai, scelta perché è facile arrivarci con una strada che taglia la costa proprio sopra le grandi grotte. Con la macchina – ma forse è fatto divieto – arriviamo sino alla fine della strada parcheggiamo con discrezione in uno spiazzo che altro non è che una stupenda balconata sul golfo increspato da una lieve brezza marina.
Trovare il sentierino per la discesa non è difficile, un pochino di più trovare la prima sosta di calata.
Ma il Diretur ha letto parecchie relazioni e commenti su Gulliver, e dopo un breve girovagare troviamo la sosta giusta e scendiamo.
Scendo da secondo e la scusa è sempre la stessa: il Diretur ha lo shunt che non attorciglia le corde, io sono rimasto allo stato primitivo con il nodo Machard, scendendo mi godo il panorama: il mare calmo e il suo blu intenso, le rocce di calcare grigio scuro, gli scogli e la sabbia del fondo marino che distribuiscono colori, più o meno intensi, a seconda del fondale.
Arriviamo a pochi metri dagli scogli che si buttano in mare, ora ci tocca risalire.
La roccia è D.O.C., i resinati sono posti alla distanza giusta e lasciano l’ingaggio necessario senza banalizzare l’arrampicata, la linea è di quelle belle, fatte con buon senso e sfruttando le rughe della roccia che comincia a rosicchiarci i polpastrelli.
Arriviamo all’ultima sosta con ancora il sole alto nel cielo terso. Si risale il sentiero che ovviamente è nella macchia mediterranea e ci distrugge pantaloni e maglietta ma in poco tempo siamo alla macchina.
La balconata ci permette di ammirare tutto il golfo di Orosei, in lontananza Cala Luna e le altre calette, il mare è increspato dal vento e qualche onda comincia a crescere.
E’ ora di andare a preparare cena. Mi sveglio alle 6, tanto di più non riesco a dormire, i miei soliti esercizi alla spalla e via a preparare la colazione. Oggi si va a Baunei alla Punta Su Mulone a tentare la via HAPPINESS
I 50 km che separano Cala Gonone da Baunei, sono tanti ma la strada è perfetta (infatti è diventata una pista motociclistica!!!) e il panorama di tutto rispetto.
Per tutto il viaggio non facciamo altro che guardarci intorno e immaginare quante vie verrebbero fuori se avessimo il tempo di stare due/tre mesi. Ho portato il trapano, gli spit, e una decina di soste, se abbiamo tempo magari ci facciamo un pensiero.
Dal parcheggio di Pedra Longa all’attacco della via predestinata ci mettiamo un pochino ma ne vale la pena, lo sguardo è incollato alla parete alla nostra sinistra, dove sono state chiodate parecchie vie, e davanti abbiamo la Giradili, non potremo chiedere di più.
Parto per il primo tiro, arrivo in sosta e recupero, i tiri si susseguono regolari ma da metà in poi arriva un vento patagonico e il nostro amico apritore – che Dio lo conservi a lungo e gli dia tanti spit! – comincia a chiodare con la fionda.
Certo la roccia qui supera ampiamente l’Alchimista, roba che se la sognano anche a Kalymnos (si sono di parte… lo ammetto!). Il settimo tiro è una placca stupenda, una roccia che ha dell’incredibile ma gli spit sono eterni, la placca è il mio genere, non la temo ma questa mi fa riempire le mutande.
Raggiungo uno spit, mi fermo guardo dove è piazzato l’altro…porco demonio è lontanissimo!
Va beh provo: ecco una tacchetta a sinistra poi uno spalmo con il piede destro, spingo con il palmo della mano al centro e poi di nuovo a destra per prendere una piccola pinzata verticale, vado avanti zizzagando come un ubriaco per seguire il codice segreto che la roccia mi svela poco per volta.
Arrivo allo spit che avevo visto dal basso, respiro profondamente, grido al socio, che non mi sente perché il vento copre tutte le voci, che è un tiro fantastico e ricomincio il gioco.
Il successivo tiro è del Diretur, anche questo roba da 10 e lode, solo un pochino più sporco dai cespugli di ginepro ma sempre con una roccia pazzesca.
Arriviamo in punta con il vento che ci ricorda che bisogna darsi una mossa se non vogliamo tornare con le frontali, sono pur sempre 9 doppie da scendere, pregando che non si debba risalire per recuperarne qualcuna.
Oggi Monte Oddeu.
Un posto che conserva la sua magia, vero che oramai tra il bar, il parcheggio per Tiscali e i fuori strada che vanno alle Gole di Gorropu, ci sta un discreto casino, ma appena si è sotto la parete tutto diventa secondario e si pensa solo ad arrampicare.
Abbiamo scelto KLETTERN MUSIK, una via recente che pare esigente il giusto.
A parte la solita partenza con il primo spit a dieci metri, il resto non è da meno: placche su placche e poi ancora placche con spit belli lunghi. Tiriamo fuori tutti i trucchi del mestiere per spalmarci come il burro sul pane tostato, gli alluci gridano il loro dolore ma sopportiamo come eroici guerrieri spartani votati al martirio.
I tiri sono lunghi come si usava una volta e va bene, così possiamo riposarci e guardare il socio che sale e soffre in silenzio - il Diretur – o io che salgo citando frasi celebri: “mi sbuccio ma non mi sfondo, chi vola vale chi non vola è un vile, la placca è intelligenza motoria, la placca ti spacca”… sino all’urletto liberatorio alla Ondra.
Saranno solo 6 tiri ma ci impieghiamo quasi mezza giornata per salire e ora ci tocca anche scendere non sulle doppie (troppo casino con piante e arbusti sulla via) ma a piedi.
La ricorderemo a lungo questa discesa con le scarpette di arrampicata ai piedi (le pedule non le avevamo portate dietro‼!), ed anche i nostri piedi se la ricorderanno a lungo ma, soprattutto, ce la faranno pagare.
Terzo giorno: oggi si va a Pedra Longa.
Arriviamo al parcheggio che è già un brulicare di arrampicatori ed escursionisti che, ognuno per gli affari suoi, si prepara, inoltre sembra di essere sulla torre di Babele, tante sono le lingue che si sentono.
Ci prepariamo anche noi, anche se io sono rapito da uno splendido lato B di una fanciulla spagnola che cerca di infilarsi l’imbrago con molta difficoltà, mi avvicino per aiutarla ma sono preceduto da un energumeno iperpalestrato che la prende di peso e la infila nell’imbrago come un sacco di patate. E niente….non c’è più l’attenzione di una volta, fossi arrivato prima del giovane ganzo, gli avrei insegnato il modo elegante di infilarsi l’imbrago, l’avrei abbracciata per simulare i movimenti corretti per sfilarlo, sarei stato così gentile da mostragli il nodo a 8 con la filastrocca…e tanto altro ancora, ma il tempo della gentilezza è oramai passato di moda….peccato!
Il Diretur mi risveglia dalla delusione post-romantica che stava attanagliandomi e sparisce in un sentierino che risale la dorsale della parete per poi scendere a picco sulla scogliera.
Trovata la doppia che ci deposita sugli scogli in riva al mare ecco la nostra via IL RICHIAMO DEL MARE che parte con un bello e lungo traverso che finisce sullo spigolo della parete.
Si susseguono 7 tiri uno più bello dell’altro, con una roccia pazzesca che taglia i polpastrelli, con i piedi che dove li metti stanno, tanto è lavorato l’appoggio, si arrampica con vista mare e con il vento che si incazza come è suo solito. Ma siamo preparati, abbiamo l’abbigliamento supertecnico e questa volta non battiamo i denti.
Quarto giorno, oggi giochiamo in casa, si decide di rimanere a Cala Gonone, direzione la scogliera di Biddiriscottai per andare a ripetere la mitica ZANAHOIRA.
Questa via volevo ripeterla parecchi anni fa ma quando avevamo chiesto ai tipi che arrampicavano nel grottone dove si trovasse l’attacco, ci avevano mandato dalla parte opposta.
Vero che la socia di allora era un avvenente arrampicatrice dell’età di Gesù Cristo e che l’invidia è una brutta cosa ma non è stato un bel gesto, ancor peggio che è stato fatto da gente che arrampicava.
Questa volta andiamo a colpo sicuro.
Un’attrezzata e bella discesa ci deposita in riva al mare e poi ecco la via ma, soprattutto, ecco i due tunnel.
Come avrà fatto l’apritore a capire che si poteva passare nei tunnel e tirare una linea così originale, rimane un mistero.
Comincio io, sembra difficile ma poi le tacchette ci sono, la roccia non è proprio super ma l’ambiente eccezionale.
Arriva e riparte il Diretur, si infila nel primo pertuso della via non lo vedo più ma sento la sua voce emettere suoni di cui non capisco, per ora, la ragione.
Le corde scorrono veloci, vuol dire che è arrivato in sosta, mi metto in assetto da guerra e parto anche io.
Ecco ho capito i mugolii! praticamente siamo come una sonda rettale in ispezione all’intestino tenue tra il guano dei gabbiani….alla faccia della via mitica!!!
Per fortuna si esce veloci e dopo il primo pertuso saliamo la parete tra cielo e mare, senza problemi di claustrofobia sino al secondo pertuso, leggermente più difficile ma anche decisamente più pulito dai liquami dei pennuti.
L’ultimo tiro me lo puppo io e devo dire che lo considero anche il più bello della via: una fessura diedro in traverso, senza alcun segno di volatili.
Quinto giorno: si ritorna a Baunei, oramai la macchina va da sola, evitando le manzette che ogni tanto incrociamo sulla strada.
La via di oggi è TRE PER TRE, ne parlano bene ed è situata in una zona in cui non siamo mai stati, nonostante sia vicinissima alle falesie.
Sono 6 iri su roccia eccellente e chiodatura alpina. Ci incuriosisce il commento all’ultimo tiro “placca verticale crepitante su roccia entusiasmante”. Confermiamo, soprattutto il termine crepitante, anche se io l’avrei descritta come “placca orgiastica” tanto è bella e goduriosa!!!! Quasi, quasi scendiamo e la ripetiamo una seconda volta, ma il vento è talmente forte oggi che ci fa desistere.
Sesto giorno: la Direzione è sempre Baunei ma questa volta saliamo al Golgo e poi prendiamo la sterrata sino all’ovile Deuspiggius. Oggi il vento ha cominciato a cantare presto e uscire dalla macchina e cambiarsi è già arduo. Scendiamo il sentiero sino alla cengia Giradili e arriviamo all’attacco della via. Il vento ora canta l’Aida, sarà anche un bel canto (sono tra le poche persone che amano il vento) ma è talmente forte e anche freddo che dobbiamo abbandonare l’idea di salire la via PARTHENIA.
Oggi ha vinto “Messer Vento” e a noi tocca andare in falesia.
Settimo giorno: siamo di nuovo all’ovile, di nuovo alla cengia e questa volta si sale!
Siamo già in modalità antivento e pertanto non siamo sorpresi se questo soffia ancora con grande impeto. La via è bella, il buon Vigiani è una garanzia: nulla è scontato e ogni spit una conquista. Ogni tanto guardo alla mia destra le altre cordate sulla Giradili alcuni sono su Mediterraneo, da questa angolatura sembra dritta come una pertica e lo faccio notare al Diretur. Tre anni fa ci eravamo noi su quella via, direi che ce la caviamo ancora nonostante gli “anta”.
Tra una cosa e l’altra continuiamo a salire e a un certo punto ci troviamo nella nebbia, cosa strana alquanto ma cosi è!..sembra di stare in Sbarua ai Santi.
Usciti dalla via ricerchiamo il sentiero che ci riporterà all’ovile e per fortuna la nebbia sparisce e noi troviamo i primi ometti del sentiero.
Ottavo giorno, destinazione Surtana.
Surtana e il Supramonte, sono i posti che amo sopra tutti.
Non solo per le vie che ci riservano come uno scrigno di preziosi ma per il carattere che sprigionano. Se dovessi scegliere un posto che mi rappresenti non avrei dubbi, le mie radici sono al Paese ma la mia anima la vorrei posata su queste rocce, su questi sentieri, su questi boschi, su questi lecci contorti dal vento e bruciati dal sole.
I pilastri di Surtana hanno già alcuni alpinisti attaccati alla sua roccia unica e irripetibile, noi usciamo dal bosco e raggiungiamo il sentierino che corre sotto la parete sino a trovare la scritta, sbiadita, della nostra via: SEMPER ONESTU.
La roccia è perfetta, ogni volta che salgo questi pilastri mi stupisco di quanto il vento e la pioggia abbiano modellato la roccia; nulla di più bello, ruvido e tagliente hanno toccato le nostre mani. Oggi arrampichiamo in silenzio come se fossimo dentro una chiesa.
In punta ci fermiamo un attimo a guardare Tiscali, i boschi della vallata, le sculture di roccia scolpite dagli elementi della natura sull’altipiano. Mi siedo con le spalle alla parete e davanti a me la valle sino alle prime balze del Supramonte.
Anni fa ero in questo stesso luogo e una donna posava il suo capo sulla mia spalla, il ricordo si fa intenso ma cerco di scacciare i rimpianti e conservare il sapore delle belle storie… è difficile ma ne vale la pena.
Il Diretur ha pronte già le doppie, lo raggiungo e scendiamo ma questa volta non ci facciamo mancare una bella corda incastrata su ginepro, però alla fine siamo anche contenti, che risalire su questa roccia è sempre una goduria.
Ultimo giorno: il traghetto parte alle 21 da Olbia, abbiamo ancora tempo per salire una via corta. Con Valerik, l’anno scorso eravamo andati a Cala Fuili per fare delle vie appena dentro la Codula.
Ci ritorniamo e non avendo la guida ci buttiamo su quella che ci ispira di più per il nome: LA PINNA DELLO SQUALO.
Alla fine tre doppie ci riportano a terra giusto in tempo per andare in spiaggia alla caletta, prendere un poco di sole e fare pediluvio ai nostri piedi che ora hanno detto “BASTA!!!”.
Il viaggio per Olbia decidiamo di farlo lungo la provinciale per vedere qualche parete e perché mi ricordo di un bellissimo pilastro che avevo tentato qualche anno fa.
Sulla nave, mentre guardiamo il panorama umano dei villeggianti al rientro chiudiamo i conti su questo Pellegrinaggio in Sardegna anno 2024.
In dieci giorni abbiamo salito nove vie lunghe e trascorso una mezza giornata in falesia, abbiamo salito circa 65 tiri di corda, percorso 1700 Km, consumati 30 litri di Ichnusa e due carrelli della spesa al Supermercato, una pizzata con gli amici di Modena, tre lavatrici a pieno carico, medicinali e cerotti per i piedi distrutti, assenza di vita sociale (aperitivi, feste mondane, ecc) ma solo birra e patatine alla fine della giornata, crollo fisico post-serale dopo cene rigorosamente di tradizione locale.
Che dire? Non aver tirato fuori il trapano ci manca un poco, ma i giorni erano contati e non potevamo/volevamo rinunciare ad arrampicare. Certo con più tempo a disposizione si poteva fare anche una bella via nuova, di posti ne avevamo adocchiati parecchi e uno più bello dell’altro.
Ma non abbiamo rinunciato all’idea, ho anche in mente il nome da dargli, spero di convincere il Diretur ad accettarlo: Alaerru.
Perché questo nome? Beh questa sarà un’altra storia da raccontare.
Gian Piero Porcheddu (IS e GISM)