Tribulasiun
Tribulasiun
Avevamo detto le ultime parole famose “finalmente ci godiamo la cima”. Erano le 2 del pomeriggio di una magnifica giornata di luglio ed eravamo in cima al Becco Meridionale della Tribolazione. Altroché se ci siamo goduti la cima: lassù ci siamo stati 18 ore, notte compresa.
Normalmente non eravamo così veloci, anzi, proprio da quelle parti qualche anno addietro avevamo vissuto una piccola avventura quando andammo a fare la via Ottin a questo Becco Meridionale, che già allora ci fece tribolare per bene, d’altra parte “Tribolazione” non è solo un nome ma anche una garanzia. Provate a interrogarvi o chiedere a qualcuno dove si trova questa via Ottin, sicuramente non avreste risposta. E già perché del Becco si conosce la sua bella ed evidente parete Sud-Est, che già la si scorge dalla strada di fondovalle, così caratteristica e triangolare, di colore rosseggiante per il suo bel gneiss-granitoide. Dal Pontese poi te la vedi sparata lì davanti, quasi voglia chiamarti. “Scalami” lei dice. Invece nascosta, molto nascosta c’è una paretina, la Est-Sud-Est. Per raggiungerne la base occorre sempre risalire il famigerato zoccolo della parete SE, un po’ infido quando ci sono colate di neve e la roccia è umida. Poi, quasi arrivati agli attacchi delle vie, si va verso destra e scavalcata una breccia ecco che appare questa paretina misteriosa. Fu così che la mia prima via sul Becco (Becco Meridionale della Tribolazione, BMT per gli amici) si svolse su quel triangolino appartato. Eravamo in 5, due cordate in formazione 2+3, ma col procedere della salita e di eventi attinenti la meteorologia, vedi temporali, si formò un’unica cordata di tutti noi 5, alla cui testa c’era Sergio, il capocordata riconosciuto da tutti per età ed esperienza. Quando ci trovavamo il giovedì sera al CAI, era lui che decideva le salite che avremmo fatto nel weekend e si decideva anche dove andare a bivaccare, perché di rifugi non se ne parlava, visto che eravamo perennemente spiantati. Fatto sta che poco sotto la cima ci colse il temporale. Nemmeno il tempo di una breve sosta, di scattare una foto, che dovemmo scendere più rapidamente possibile giù per la normale, disarrampicando alla bene-meglio sulla roccia ormai bagnata. Non fummo delle schegge, ma nemmeno fummo fulminati. Fu solo quando raggiungemmo la prima cabina telefonica, che era giù a Rosone, che ci sentimmo tranquilli, essendo finalmente riusciti ad avvisare genitori e parentela varia. Erano le 10 di sera, per la precisione e mezzanotte quando arrivammo a casa.
Ecco perché finalmente potevamo goderci la cima io e Mario. Avevamo appena salito la Malvassora, l’esempio più classico di arrampicata su granito con difficoltà di 4° max 4°+ o 4° sup che dir si voglia. Tutto era filato liscio e a ritmi veloci, una lunghezza via l’altra a tiri alterni. Dietro di noi c’erano altre cordate e alcune erano davanti e già arrivate in cima. A fianco della croce di vetta incontrammo la cordata di Silvio Vittone e del colonnello Peyronel, personaggi conosciuti nel mondo alpinistico torinese. Con essi ci intrattenemmo amabilmente chiacchierando fino a che non successe il fattaccio.
Al colletto nei pressi della cima arrivò un arrampicatore, era 10-15 metri distante da me; lo vidi volgere lo sguardo verso il Gran Paradiso, ma fu solo per pochi istanti, poi lo vidi precipitare sul versante SE: due capriole su una placca per inabissarsi e sparire giù dalla parete. Rimanemmo sbigottiti. Subito subito si trattava di capire cosa era successo e cosa si sarebbe potuto fare. Grazie ad una cordata che era poco più in basso, ricostruimmo l’accaduto. Era successo che il secondo di cordata, ad una delle sue prime esperienze alpinistiche, si mosse dalla sosta prima ancora che il primo si fosse assicurato. Subito sopra la sosta, l’ultima della via, c’era un passetto un po’ delicato. Il secondo scivolò e nella caduta dette lo strattone al suo compagno in alto. Ad evitare che la cordata precipitasse lungo tutta la parete ci fu la tenuta di un chiodo. Il risultato fu che il secondo fece un voletto di pochi metri che gli procurò la frattura della caviglia; il primo invece piombò quasi in testa alla cordata che stava dietro e rimase appeso a pochi metri dalla cengia dove c’era la suddetta cordata, composta, come apprendemmo, da Dolfo Rabbi, fratello di Dino, più celebre alpinisticamente parlando, e da un suo amico. Con una serie di manovre questa cordata riuscì a deporresu una cengia il corpo del caduto, privo di sensi ma ancora in vita. A loro va il merito di avere non solo sistemato il ragazzo, ma di averlo vegliato ed accudito fino all’arrivo dei soccorsi. Nel frattempo noi che eravamo in cima riuscimmo a recuperare il secondo. A questo punto si doveva chiamare il soccorso. Non era l’epoca di cellulari e di elicotteri, quindi qualcuno di noi doveva precipitarsi a valle e dare l’allarme. Riconoscendo la maggiore esperienza e la garanzia di una più veloce discesa, Vittone e Peyronel scesero di gran carriera giù dalla montagna: più che scendere si catapultarono. Raccomandammo solo di avvisare i nostri familiari, poiché prevedevamouna lunga permanenza fino all’arrivo dei soccorsi.
Mario, io ed il secondo restammo soli sulla cima, quaranta metri sotto di noi c’era l’altra cordata in compagnia del moribondo. Incominciò così la paziente attesa. Intanto si era fatto pomeriggio avanzato e il tramonto era alle porte. Peccato che, dopo i suoi effetti speciali, arrivò una nuvolaglia che portò qualche fiocco di neve. Non è che fossimo così preparati per un bivacco estemporaneo, ma lo accettammo di buon grado come ineluttabile. Nel frattempo la nostra principale attività fu quella di consolare e sostenere moralmente il ragazzo che si imputava la colpa dell’incidente. Per tutta la sera e la notte cercammo di sfoggiare parole più rassicuranti, in modo da lenirgli lo spirito ed il dolore al piede. L’oscurità prese il sopravvento ma fu proprio nel buio che, dall’alto del nostro pulpito, incominciammo a scorgere puntini luminosi, in basso, ancora molto in basso. Con fare speranzoso seguimmo gli avanzamenti di quelle luci. Fu la nostra distrazione notturna che ci distolse tra un assopimento e un altro. Un cielo grigiastro e nebbioso ci consegnò il primo chiarore del nuovo giorno. Fu allora, le 6 del mattino, che sbucarono i primi soccorritori, i fratelli Lana, mi pare venissero da Ivrea. Avevano la barella, che era nuova per cui si dovettero leggere e seguire attentamente le istruzioni per il suo montaggio. Via via la cima si affollò di soccorritori tra i quali scorgemmo Giampiero Motti ed il fior fiore dell’alpinismo canavesano. Qualcuno ci offrì del tè caldo. Intanto, superato l’ostacolo del montaggio barella, le operazioni di recupero e calata dei feriti si svolsero celermente. Fu tutto un battere e ribattere di chiodi, di preparazione di ancoraggi, di calate.Mario ed io, dopo esserci sgranchiti le gambe, accompagnammo, o per meglio dire fummo accompagnati fin dove termina la via normale ed oltre ci sono solo più pietraia e sentiero.
Diversi anni dopo: mi ero rotto tibia e perone per una stupida caduta con uno sci che aveva inforcato una radice. Terminato l’allora lungo periodo di ingessatura stavo continuando con la riabilitazione. Fu in una sala di attesa dell’ospedale che mi misi a chiacchierare con una anziana signora e con suo figlio, che vedevo disabile. Dissi che mi ero fatto male in montagna per una stupidata; il figlio mi disse che anche lui era in quelle condizioni a causa di una brutta caduta. Approfondendo il discorso sul suo incidente si arrivò a capire che lui era il ragazzo che precipitò dal BMT. Gli riferii la mia testimonianza e gli raccontai cosa era successo. Lui non aveva alcun ricordo dei momenti cruciali della caduta, era stato sei mesi in coma e poi, piano piano s’era ripreso, tanto da non avere perso nulla intellettualmente e fisicamente recuperò quel tanto che gli consentiva di lavorare. Ci trovammo un giorno a casa sua, io ero insieme a Mario. Davanti ad una fetta di torta gli facemmo vedere quelle due o tre diapo che avevamo scattato: si vedeva molto poco della disgrazia ma fu un modo quasi terapeutico per affrontare la realtà.
Da allora sono ancora salito 4 o 5 volte sul Becco Meridionale della Tribolazione, ogni volta, sulla cima, il ricordo è andato a quella giornata e agli insegnamenti che nel bene o nel male gli incidenti portano. Ho fatto altri bivacchi, pochi quelli imprevisti, tanti quelli voluti e, questi, ve lo posso assicurare, sono tra i ricordi più belli dell’andare per i monti.
Lorenzo Barbiè