Pillole di Storia dell'Alpinismo
La scuola di Alpinismo Giusto Gervasutti offre a chi vuole avviarsi alla scalata ed alla montagna dei corsi che affrontano le varie specializzazioni che oggi caratterizzano tali attività.
Primo Corso di arrampicata base
Corso di cascate di ghiaccio
Corso di arrampicata libera
Corso di alpinismo e specializzazione.
Queste “Pillole di Storia” sono rivolte agli allievi del Corso di alpinismo che intendono avviarsi a scalare percorsi in alta montagna su terreni di “avventura”, ossia non pre-attrezzati con ancoraggi esistenti in parete.
Anche l’alpinismo, come ogni altra attività umana, ha la sua storia. Una storia non molto antica ma ricca di episodi avvincenti e di avventure a volte drammatiche. L’alpinismo, dalla sua origine, ha avuto una grande evoluzione che spesso ha stravolto ivalori e le motivazioni che lo hanno caratterizzato nelle varie epoche. Il mio intento è condurre gli allievi a seguire, almeno un po', tale evoluzione in modo che anche tra i giovani scalatori non si attenui, o vada perso, quel fascino della grande avventura che ha sempre spinto gli scalatori verso la montagna.
E’ mia impressione che i giovani “apprendisti alpinisti” (per dirla alla Rebuffat) conoscano ben poco della storia dell’alpinismo anche perché i mezzi d’ informazione sulla materia sono ben diversi da quelli di quando io iniziai a scalare. Comincio perciò ponendo loro due domande: cos’è il Club Alpino Italiano (CAI)? E cos’è il Club Alpino Accademico Italiano (CAAI)?
Alla prima domanda mi aspetto come risposta che è un Club al quale bisogna iscriversi per poter frequentare la Scuola di Alpinismo, per avere sconti nei rifugi alpini e per usufruire di una assicurazione in caso di necessità di soccorso alpino. Poco più di questo.
Alla seconda domanda mi aspetto più o meno una scena muta.
Il Club Alpino Italiano venne fondato nel 1863 dallo statista Quintino Sella con altri pochi amici che, come lui, erano stati presi dalla passione di scalare le montagne. Il CAI prendeva esempio dall’ Alpine Club inglese nato nel 1857. I primi soci erano tutti alpinisti allineati al livello ed al modo di salire le montagne di allora.
Nel corso di molti decenni il Club si è ingigantito, oggi conta oltre 300000 soci e gli alpinisti sono ormai una piccola minoranza, lo si evince confrontando le immagini riportate sulle copertine del passato e del presente della rivista ufficiale del Club. Va precisato che il CAI venne fondato a Torino.
Il CAAI nacque anch’esso a Torino nel 1904. L’intento dei fondatori era quello di emancipare e rendere indipendenti i soci dal servizio delle Guide Alpine; formare perciò dei capi cordata in grado di andare da “primo” anche sulle grandi difficoltà (di allora si intende). Come vedremo nell’arco del1800 le cordate erano condotte (salvo rare eccezioni) da Guide di origine montanara. Con il tempo la formazione di capi cordata è passata alle scuole di alpinismo ed i CAAI è divenuto un gruppo di “elite” precluso però alle guide alpine. Nel 2020 il Club Alpino Accademico contava 283 soci di cui solo L’8% di età inferiore ai 50 anni ed il 3% con meno di 40, è normale perciò che risulti poco conosciuto tra i giovani.
L’alta montagna ha sempre rappresentato un grande ostacolo per l’uomo che si spingevasolo fin dove era possibile sfruttare delle risorse; oltre salivano esclusivamente dei cercatori di cristalli e dei cacciatori seguiti,in tempi successivi, dai cartografi quando iniziarono irilievi topografici delle montagne.
Come inizio del fenomeno “alpinismo” viene considerata la prima salita del Monte Bianco avvenuta l’8 agosto 1786 ad opera del medico condotto di Chamonix: Michel Gabriel Paccard e del montanaro Jaques Balmat. Allora Chamonix faceva parte del ducato di Savoia ed il dott. Paccard aveva compiuto gli studi a Torino. L’interpretazione francese dell’impresa ha sempre considerato come protagonista principale il montanaro Balmat mentre approfonditi studi più recenti rivalutano molto il ruolo del medico Paccard.
La prima ascensione del Monte Bianco trae origine dall’iniziativa di uno scienziato ginevrino: Horace Benedict de Saussure che già nel 1760 aveva promesso un premio di 3 ghinee a chi fosse riuscito a raggiungere lavetta del monte più alto d’Europa. Lo scienziato era fortemente interessato agli esperimenti che potevano essere condotti a quelle altissime quote. Iniziativa che ben si inquadra nel periodo dei “Lumi” della storia (Illuminismo).
In epoche precedenti c’erano stati degli episodi di salita in vetta a montagne. Nota quella del Rocciamelone nel 1358 compiuta da Bonifacio Rotario d’Asti in adempimento di un voto fatto alla Madonna mentre era prigioniero dei turchi.
Notevole poi l’impresa veramente eccezionale compiuta da Antoine de Ville nel 1492 che, dietro ordine del Re di Francia Carlo VIII, Sali il monte Aiguille (2087 m.) denominato anche Mont Inaccessible, circondato da pareti verticali da ogni parte. Antoine, a capo di un folto gruppo, pare abbia usato le attrezzature che venivano impiegatenell’assalto alle mura dei castelli.
Questi e sicuramente altri meno noti, sono però dei casi isolati che non danno origine a nulla mentre la scalata del Monte Bianco avvia effettivamente l’esplorazione delle grandi altezze. Il motore che muove l’iniziale alpinismo è indubbiamente la ricerca scientifica ma presto si affacciano sulla scena i viaggiatori/esploratori inglesi che, animati da una visione più sportiva, avviano una vera e propria: “conquista delle Alpi”. L’interesse scientifico viene ancora a tratti sbandierato ma dietro vi è una corsa per arrivare primi sulle cime ancora vergini.
In questa attività, che diventa frenetica e competitiva, si afferma il ruolo della Guida Alpina. Quei montanari, antichi cercatori di cristalli e cacciatori, abituati a percorrere terreni accidentati, diventano abili Guide e si specializzano nel condurre i “signori” viaggiatori sulle cime più impervie. Gli alpinisti inglesi, esploratori per tradizione e animati da spirito di conquista, arrivano quasi sempre per primi sulle cime più importanti, naturalmente condotti dalle forti guide valligiane. Cosi, ad esempio, abbiamo la prima ascensione della Barre des Ecrins (Cima più elevata del Delfinato) compiuta da E. Whymper, H. Walker, W. Moore il 25 giugno 1864, accompagnati dalle guide C.Almer e M.Croz. Gli stessi personaggi li troviamo in altre importanti prime ascensioni: Whymper nella prima della punta che porta il suo nome alle GrandesJorasses il 24giugno 1865, W. Moore, F. e H. Walker, G. Mathews nella prima salita del Monte Bianco lungo lo sperone della Brenva il 14 luglio 1865, H. Walker per la prima volta sulla cima massima delle Grandes Jorasses il 30 giugno 1868. Questi intraprendenti personaggi d’oltre Manica però sempre assistiti dalle più celebri guide alpine del periodo.
Anche la prima ascensione del Monviso, la più appariscente delle grandi montagne viste dalla pianura torinese, è appannaggio dei sudditi dell’impero britannico: Viene salito il 3 agosto 1861 da W. Mathews e F. Jacomb accompagnati dalle guide J.B. e M. Croz.
La prima spedizione completamente italiana a raggiungere la vetta del Re di Pietra è stata quella di Quintino Sella composta, oltre che dallo statista, da Giovanni Barracco, da Paolo e Giacinto di Saint Robert accompagnati da tre guide. Fu a seguito di quella scalata che nacque la decisione di dare vitaal Club Alpino Italiano, ad immagine del Club, nato 6 anni prima in Inghilterra. Il CAI venne infatti fondato il 23 ottobre 1863 a Torino.
Un altro italiano era già stato in vetta al Monviso: la guida alpina Bartolomeo Payotte di Bobbio Pellice che accompagnava con altre guide l’inglese F.F. Tuckett nell’ascensione del 4 luglio 1862.
Una vera e propria competizione si accende per la conquista del Cervino. La Gran Becca, per la sua forma ardita e dall’apparenza impossibile, rappresentava la sfida più appariscente nelle Alpi. Malgrado l’aspetto inaccessibile numerosi tentativi si succedono dal 1859 all’anno della conquista: 1865. Il più determinato nei tentativi fu l’inglese Edward Whymper, prima in collaborazione poi in competizione con la più forte delle guide di Valtournenche Jean Antoine Carrel. Il successo arrise a Whymper che il 14 luglio 1865 toccò la cima con i compatrioti F. Douglas, D. Hadow, C. Hudsone tre guide alpine: i Taugwalder padre e figlio e Michel Croz, forse la più grande guida di quel periodo. In discesa, procedendo legati in una unica cordata, qualcheduno scivolò e trascinò gli altri nellacaduta. La corda che li legava, sottoposta ad un forte strappo si ruppe ed in quattro precipitarono perdendo la vita. Si salvarono Whymper ed i due Taugwalder. Fu la prima grande tragedia alpinistica.
A differenza della maggior parte dei viaggiatori/alpinisti inglesi di quel periodo Whymper non apparteneva all’alta borghesia o all’aristocrazia. Egli era un incisore incaricato dal suo editore di illustrare le Alpi con le sue incisioni.
L’interesse scientifico, anche se talvolta viene ancora usato come copertina di facciata, non è più il motore che spinge a scalare le montagne, gli inglesi sono mossi da una visione più sportiva e ludica di questa attività. Un celebre alpinista del Regno Unito dell’800: Leslie Stephen (critico letterario e padre della scrittrice Virginia Woolf) intitola il libro ove racconta le sue scalate: Il Terreno di Gioco dell’Europa, riferendosinaturalmente alle Alpi. Titolo che risulta moderno ancora oggi.
La citazione dello storico libro di Stephen consente di evidenziare una forma di letteratura che sempre accompagnerà l’alpinismo in tutte le sue epoche: la Letteratura Alpinistica. Nell’800 l’alpinismo era ricerca, scoperta ed infine avventura; azioni e sensazioni che l’uomo sente la necessità di raccontare e condividere. Ha inizio cosi la pubblicazione di libri dedicati ove gli alpinisti raccontanoavventure, motivazioni ed esperienze vissute scalando montagne. Tale attività letteraria non rimane circoscritta e si allarga in ogni paese ove si diffonde la pratica dell’alpinismo. Tra i primi italiani a raggiungere notorietà per i suoi libri di montagna è lo scrittore alpinista Guido Rey. La produzione di libri dedicati all’alpinismo non conosce soste e continua fiorente anche ai giorni nostri.
Accanto ai libri si diffondono numerose riviste edite dai vari Club Alpini e dalle stesse Sezioni che li compongono. Nascono anche riviste private dedicate all’alpinismo ed alla montagna matale editoria, in tempi recenti, è entrata in crisi soffocata dal lievitare dei costi e dalla concorrenza di internet. Stessa sorte è toccata a celebri collane di guide alpinistiche come le collane dei Monti d’Italia e delle Guide Vallot (francesi) che illustravano il Monte Bianco.
L’alpinismo dell’800 è quasi esclusivamente un alpinismo con guide: i “signori” che lo praticano si avvalgono di montanari che, abituati a muoversi su terreni impervi come cercatori di cristalli e cacciatori, diventano abili guide alpine dando vita ad una professione che offre loro importanti risvolti economici. Non mancano esempi di alpinisti che diventano abili nella scalata come e forse di più delle guide; è il casodell’inglese Albert Frederik Mummery, forse il più grande alpinista dell’800 che, in grande anticipo sui tempi,tentò la salita di un 8000, il Nanga Parbat. Spinto da incredibile audacia si avventurò, accompagnato da due portatori gurka, a tentare la salita dal versante di Diamir. Qui scomparvero il 24 agosto 1895. Mummery lasciò un bellissimo libro: Le mie scalate nelle Alpi e nel Caucaso.
La conquista delle cime si estende a tutti i gruppi alpini, quindi anche alle Dolomiti. Queste montagne quasi sempre non presentano versanti agevoli e per toccarela cima occorre superare elevate difficoltà nell’arrampicata su roccia. Le tecniche di scalata si sviluppano perciò più rapidamente che nelle Alpi Occidentali ed ha inizio l’uso dei chiodi di acciaio da infiggere nelle fessure della roccia per assicurarsi e per progredire. Su queste montagne il superamento delle difficoltà su roccia progredisce più rapidamente e saranno scalatori formatisi nelle dolomiti ad apportare un forte miglioramento nella scalata anche sulle grandi cime occidentali delle Alpi.
Sul finire dell’800 ed all’inizio del nuovo secolo, si afferma sempre di più l’esigenza, da parte degli alpinisti migliori, di emanciparsi dal servizio delle guide alpine e di affrontare anche le montagne più difficili da capo cordata, contando esclusivamente sulle proprie forze. Per portare avanti questo principio viene fondato da 16 alpinisti, a Torino, nel 1904, il CAAI (Club Alpino Accademico Italiano). Il primo presidente fu Ettore Canzio.
L’alpinismo senza guide si sviluppa rapidamente, soprattutto nelle Dolomiti e nei gruppi calcarei delle Api Orientali dove la scalata raggiunge i massimi livelli. Gli alpinisti inglesi, che avevano furoreggiato nel corso dell’800, lasciano il campo, almeno sulle Alpi, agli scalatori di lingua tedesca seguiti dagli italiani.
Le cime delle Alpi sono state tutte conquistate e allora l’attenzione viene rivolta alle pareti dall’aspetto più difficile e repulsivo. Tali strutture non sono più “il terreno di gioco dell’Europa” ma diventano il campo della “battaglia del 6° grado”, come la definì l’alpinista, scalatore e storico, Domenico Rudatis.
Affrontando pareti sempre più difficili si pose il problema di dare una valutazionedelle difficoltà nella scalata su roccia. Il dibattito si concluse con l’adozione della scala delle difficoltà proposta dal forte scalatore tedesco Willo Welzembach (Welzembach perse la vita nel 1934 in un tentativo di scalata al Nanga Parbat).
La scala Welzembach divideva le difficoltà in 6 gradi ed il sesto grado rappresentava il limite estremo delle difficoltà vinte dai migliori scalatori. Malgrado l’evidente incongruenza nello stabilire un limite fisso di difficoltà massima superabile, tale scala venne applicata e restò in vigore (almeno nell’Europa continentale) fino agli anni ’70. Per molti anni il sesto grado rappresentò il limite dell’”impossibile” ed assunse quasi un valore filosofico come sinonimo di estremo.
La prima via considerata di “sesto grado” fu quella aperta da Emil Solleder e Gustav Lettembauer sulla parete Nord Ovest del Civetta il 7 agosto1925.
La così detta “battaglia del sesto grado” avvenne soprattutto nelle Dolomiti e tra scalatori di lingua tedesca e scalatori italiani. Tra questi scalatori non si nota più la visione un po’ sportiva dei pionieri inglesi. La scalata estrema assume carattere di drammaticità dove spesso è messa a rischio la vita. A differenza delle epoche precedenti l’alpinismo di punta sembra spinto da una visione più romantica: è l’epoca dell’alpinismo “eroico” che durerà per molti anni.
Eroico sostanzialmente per due fattori: uno prettamente oggettivo, l’altro sociale e politico. Il primo deriva dal fatto che chi si proponeva di innalzare i limiti del possibile doveva avere il coraggio di affrontare grandi rischi. Allora, ad esempio, ci si legava con corda (di canapa) semplice a vita e l’assicurazione veniva effettuata a spalla con l’assicuratore quasi mai ancorato a chiodi nelle soste. Una caduta del primo di cordata spesso si traduceva nel disastro per tutta la cordata. L’altro fattore derivava dai regimi totalitari al potere in quegli anni. Tali regimi avevano bisogno di eroi da sbandierate in modo retorico e propagandistico come prodotti di una razza superiore, l’alpinismo eroico ben di prestava a tale scopo.
Nel corso degli anni ’30 la “battaglia del sesto grado” si sposta a occidente sulle grandi montagne: vengono definiti “ultimi grandi problemi” tre grandi pareti nord: quelle del Cervino, delle Grandes Jorasses e dell’Eiger. Per vincerle si scatena una vera e propria “corsa”. Significativo il fatto che tutte e tre vengono vinte da scalatori che si sono formati sulle pareti calcaree delle Alpi dell’Est.
Molti i grandi scalatori Italiani in evidenza in quel periodo, per citarne qualcheduno: Riccardo Cassin, Gino Soldà, Raffaele Carlesso, Alvise Andrich, Emilio Comici, Ettore Castiglioni, Giusto Gervasutti, Luigi Micheluzzi, Gabriele Boccalatte, Giovan Battista Vinatzer, Attiglio Tissi.
Nel dopoguerra della Seconda Guerra Mondiale anche l’alpinismo riprende slancio, sono ancora quasi tutte da ripetere le maggiori imprese degli anni ’30 e ’40. L’alpinismo francese, che era rimasto un po’ in sordina negli anni competitivi dell’ante guerra (ad eccezione del grande Pierre Allain), diviene protagonista. Sono francesi i primi ripetitori delle grandi vie di Gervasutti, della parete Nord dell’Eiger, della via Cassin sullo sperone della Walker e di tante altre.
Due scalatori marsigliesi, formatisi sulle Calanques, quel magnifico complesso di bianche pareti calcaree che circonda la citta di Marsiglia, si impongono nell’alpinismo europeo: Gaston Rebuffat, con prime ripetizioni di grandi vie degli anni ‘30, e come divulgatore attraverso i suoi libri ed i suoi films di montagna. Georges Livanos come apritore della via sul diedro della Cima su Alto nel gruppo del Civetta, da lui definita come la più difficile via fino ad allora aperta nelle Dolomiti (Tale via oggi non esiste più, distrutta da una grande frana). Francese è la “prima” della Ovest del Petit Dru ad opera di una cordata condotta da Guido Magnone e francese è la conquista del Fitz Roy in Patagonia nel 1952 ad opera di Lionel Terray e dallo stesso Magnone. Anche la conquista del primo dei 14 ottomila Himalayani, l’Annapurna,è opera di una spedizione francese che raggiunge la vetta il 3 giugno 1950.
La “conquista” degli 8000 iniziata con L’Annapurna si conclude con il Sisha Pagma raggiunto il 2 maggio 1964. La corsa agli 8000 coinvolge scalatori di tutte le nazionalità e ritornano al grandealpinismo gli scalatori britannici.
In Italia emerge un gruppo di scalatori lombardi molto giovani che prima ripetono i grandi itinerari del passato e poi iniziano ad aprire nuove vie che spostano in avanti il limite dell’impossibile, tra di essi il bergamasco Walter Bonatti che diventerà un punto di riferimento dell’alpinismo mondiale per una quindicina di anni. Bonatti si impone con “prime” che diventeranno celebri come la parete Est del Gran Capucin ed il pilastro Sud Ovest del Petit Dru, quest’ultima aperte in solitaria. Ambedue sono nel massiccio del Monte Bianco. La via Bonatti sul Dru non esiste più, una gigantesca frana l’ha distrutta.
Come in ogni epoca gli scalatori di punta non si accontentano di ripetere le opere dei predecessori e ricercano nuovi record nel tentativo di innalzare sempre di più il limite dell’impossibile. Si affrontano pareti sempre più strapiombanti e si ricorre in larga scala alla scalata artificiale (uso degli ancoraggi per la progressione). Anche l’equipaggiamento si adegua, ad esempio le calzature. Nell’epoca del “sesto grado” gli arrampicatori, sulla roccia difficile, usavano pedule leggere con suola di corda o di feltro; poi fu scoperta la suola Vibram (trae il nome dall’inventore, lo scalatore Vitale Bramani) e le pedule vennero abbandonate, almeno nell’Europa continentale) a favore degli scarponi con suola Vibram.
Il ricorso sempre più spinto alla scalata artificiale imponeva soste prolungate con le punte degli scarponi su microscopici appoggi per infiggere chiodi. Gli scarponi perciò furono prodotti con suola sempre più rigida, fino a collocare una lama di acciaio annegata negli strati della suola. Tale soluzione si dimostrò un contro senso in quanto limitava le possibilità di salire in arrampicata libera. Il ritorno all’arrampicata libera e soprattutto “sportiva” che si affermo nella seconda metà degli anni ’70 riporto in auge le scarpette d’arrampicata con suola di gomma liscia ad alta aderenza.
A cavallo degli anni ’50 e ’60 si affermano due tendenze: le vie direttissime, a “goccia d’acqua” e l’alpinismo invernale.
Sulle “direttissime” dove non esistono più possibilità di infiggere chiodi perché non vi sono fessure naturali, si iniziano a praticare fori nella roccia (a martellate con il punteruolo) nei quali si piantano chiodi a “pressione” che rimangono in parete. Esempi di vie aperte in tale modo sono la “via dei Kolibri” sulla Nord della Cima Grande di Lavaredo nell’inverno 1963 (17 giorni in parete collegati alla base con cordino), lo spigolo degli Scoiattoli sulla Cima Ovest di Lavaredo, la via Couzy sempre sulla Cima Ovest, la Roda di Vael e tante altre. L’uso del chiodo a pressione ha una certa diffusione soprattutto nelle Dolomiti. Questo sistema genera presto delle critiche accese; il giovane scalatore emergente, dalle capacità eccezionali: l’altoatesino Reinhold Messner prende fieramente posizione contro l’uso del chiodo a pressione definendo questo tipo di scalata “l’assassinio dell’impossibile”. Presto questo tipo di scalata “tecnologica”, anche sull’onda di importanti novità che stanno giungendo dagli USA e dal Regno Unito, viene messo in discussione e termina l’epoca delle direttissime a “goccia d’acqua”.
L’alpinismo invernale, sempre esistito ma in modo sporadico, all’inizio degli anni ’60, ha un vero e proprio boom, in breve vengono salite, nella stagione fredda, le vie più difficili anche sulle più ostiche pareti Nord. Viene dimostrato che non ci sono pareti che non possano essere scalate in inverno. Siamo stati tutti presi da questa dura, a volte penosa, ma affascinante realtà. Sullo sperone Cassin alla Walker delle Grandes Jorasses si rincorrono i due più celebri scalatori d’Europa di quel momento: Walter Bonatti ed il francese René Desmaison, nella prima e seconda invernale, è il gennaio 1963.
Intanto importanti novità stanno maturando oltre i confini di quella che è stata fin dall’inizio la culla dell’attività alpinistica. Nel 1958 giunge la notizia che in una, allora sconosciuta, valle della California, la Yosemite Valley, era stata scalata una parete di granito alta quasi 1000 metri. Ciò che colpi fu che quella scalata aveva richiesto 17 giorni per l’attacco finale ed un impegno globale di 47 giorni tra tentativi, preparazione e scalata. Era El Capitan, destinato, in breve, a divenire celebre. Poco si sapeva allora dell’alpinismo USA, ma presto gli scalatori americani giunsero in Europa a dimostrare il livello da loro raggiunto. Dal 1962 al 1965 tracciarono, sul granito del monte Bianco, tre itinerari con difficoltà superiori a quanto fino ad allora realizzato in Europa: la Diretta Americana sul Petit Dru, la Sud dell’Aiguille du Fou e la “Direttissima”al Petit Dru.
Gli scalatori californiani avevano sviluppato tecniche e materiali innovativi ed una filosofia diversa da quella che aveva guidato fino ad allora la scalata nelle Alpi. Tutti elementi che consentivano di elevare il livello (almeno sul granito) dell’arrampicata.
Presto i materiali usati sulle pareti della Yosemite Valley giunsero in Europa: chiodi in acciaio trattato e con forme innovative, lamette sottili per fessure cieche (rurp), Cunei in alluminio (Bong Bong), gancetti in acciaio (cliffhanger) e copperhead in rame. Con i materiali si diffuse anche la conoscenza delle motivazioni e dell’interpretazione della scalata che muoveva i “californiani”. A diffondere tra di noi questo fenomeno contribuirono gli scritti e le traduzioni di Gian Piero Motti. Fu indubbiamente la nuova visione “californiana” della scalata che traspariva dagli scritti di Motti che ci portò alla scoperta del Caporal in Valle dell’Orco (1972) e al nostro Nuovo Mattino.
Appare curioso il fatto che a compiere la prima italiana dell’ormai celebre via del “Nose” su El Capitan siano state due guide di Courmayeur (tempio dell’alpinismo classico): il grande Giorgio Bertone e Renzino Cosson nel 1974. Le due guide effettuarono la scalata con l’equipaggiamento allora in uso sulle Alpi compresi pesanti scarponi rigidi.
Una grande evoluzione in quegli anni avviene anche nella scalata su ghiaccio. Dal 28 al 31 dicembre 1973 le guide francesi: Walter Cecchinel e Claude Jager salgono il Couloir Nord Est dell’Aiguille du Dru applicando una nuova tecnica di progressione che prevede la salita frontale con ancoraggio nel ghiaccio del becco delle picozze opportunamente sagomato (piolet traction). Tale tecnica non era una novità assoluta, era già stata applicata in Scozia e negli Stati Uniti, ma sulle Alpi fu una rivoluzione, tutti adottammo immediatamente tale tecnica che consentiva il superamento sul ghiaccio di pendenze mai affrontate prima. Tale tecnica consentì la nascita di una nuova specialità che oggi conosce una grande diffusione: la scalata delle cascate ghiacciate in inverno.
Sempre all’inizio degli anni ’70 si accende il dibattito sull’apertura verso l’alto della scala delle difficoltà su roccia ferma al tetto del “sesto grado”. Tale tetto è un assurdo in quanto non prevede un miglioramento nelle prestazioni degli scalatori. Assurdo che verrà evidenziato in modo macroscopico dall’avvento dell’arrampicata “sportiva” di qualche anno dopo.
Tra i maggiori sostenitori dell’apertura della scala delle difficoltà fu Reinhold Messner. Lo scalatore alto atesino era allora ai vertici della scalata su roccia ed iniziò a dichiarare il “settimo grado” su vie da lui aperte.
Messner, a seguito di amputazioni alle dita dei piedi per i congelamenti riportati nella scalata del Nanga Parbat lungo la parete di Rupal, si defilò un po’ dalla scalata estrema su roccia dedicandosi ai record sulle montagne più alte della terra. Fu il primo a scalare tutti gli 8000 e ad escludere totalmente l’uso dell’ossigeno alle alte quote.
Il dibattito sull’apertura della scala delle difficoltà volse inevitabilmente verso la scala aperta. Noi “occidentali” optammo da subito per la scala numerico letterale francese (oggi nell’arrampicata sportiva va per la maggiore) mentre gli “orientali” adottarono la scala tradizionale aperta: settimo, ottavo, nono grado ecc.
Le Alpi risultavano setacciate in ogni dove, in ogni angolo erano state tracciate vie di scalata. Ove cercare nuovi orizzonti per innalzare i limiti dell’arrampicata? A tale domanda venne trovata una risposta introducendo una visione della scalata prettamente sportiva: Vincere le difficoltà sfruttando con mani e piedi esclusivamente le asperità naturali della roccia, senza alcun ricorso, né per la progressione né per il riposo, ad ancoraggi artificiali. Tali ancoraggi dovevano servire esclusivamente per arrestare una eventuale caduta dello scalatore. Una scalata totalmente “libera”, con lo scalatore comunque protetto in caso di “volo”. Veniva aperto un nuovo orizzonte senza confini, trovato applicando alla scalata delle regole prettamente sportive. Forse i primi ad introdurre ed applicare queste regole furono scalatori del Regno Unito.
Si cominciò con il tentare il percorso in “libera” di vie aperte con ricorso all’arrampicata artificiale poi si cominciò a tracciare itinerari creati a misura per l’arrampicata sportiva. Per trovare difficoltà sempre più elevate bisognava spingersi su roccia talmente compatta ove non era possibile fissare protezioni tradizionali (chiodi da roccia o blocchetti ad incastro). Si ritornò allora a forare la roccia per applicare protezioni fisse ove la roccia era compatta; dapprima furono spit (già utilizzati in edilizia) poi fix o fittoni resinati. I primi fori venivano praticati con punteruolo e martello, poi comparvero i trapani a batteria, sempre più leggeri e manovrabili.
Si affermò l’arrampicata su “monotiri”: vie di una sola lunghezza con l’assicuratore che rimane alla base, pratica da noi totalmente sconosciuta fino ad allora, destinata poi a diffondersi in modo esponenziale. Il livello delle prestazioni venne innalzato rapidamente, venne superato il grado 7 (7a-b-c, poi il grado 8 ed ora siamo oltre il grado 9). Questo anche perché i giovani arrampicatori iniziarono ad allenarsi sempre più scientificamente come in ogni altro sport.
Presto nacque la volontà di traslare in alta montagna le prestazioni ottenute nelle falesie ed anche lo spit emigrò verso le alte quote con conseguente pratica di fori nella roccia anche in quei luoghi, provocando a volte delle reazioni scandalizzate da parte di alpinisti più legati alla tradizione. Il primo ad utilizzare lo spit alle alte quote fu lo svizzero Michel Piola nel gruppo del Monte Bianco, era il 1980. Piola proponeva una regola severa nell’apertura di vie con uso di spit: apertura con salita sempre dal basso ed utilizzo di spit solo ove non fosse possibile piazzare protezioni mobili (nuts e friends). L’esempio di Piola venne presto seguito. Nel Briansonnais l’inizio avvenne nel 1983 con l’apertura di “Ranxerox" alla Tète d’Aval per poi diffondersi rapidamente dalle pareti calcaree al granito dell’Oisans. Molto attivo nell’apertura di vie di questo genere, il canavesano Manlio Motto negli anni ’90.
Una arrampicata sempre più sportiva non poteva sfociare che in gare competitive. Le prime vennero organizzate a Bardonecchia il 17 luglio 1985 in un angolo della Parete dei Militi. A dimostrazione che non era percepita incompatibilità tra questa nuova forma di sport ed il grande alpinismo è significativo il fatto che a organizzarle, con il giornalista Emanuele Cassarà, fu un grande alpinista: Andrea Mellano e che nella giuria vi era nientemeno che Riccardo Cassin. La roccia naturale non si prestava però alle esigenze delle gare di arrampicata che presto vennero trasferite su strutture artificiali. Oggi l’arrampicata sportiva è disciplina olimpica.
Oggi convivono tutte le forme di alpinismo e di scalata: l’alpinismo classico su terreno di avventura, l’arrampicata sportiva su brevi o grandi strutture, i concatenamenti di più vie, l’alpinismo di velocità, la scalata solitaria, la salita di cascate di ghiaccio sempre più effimere, il dry-tooling (a mio avviso una nuova forma di scalata artificiale in quanto non si scala la roccia con mani e piedi ma attraverso l’uso di attrezzi sempre più sofisticati). Quale sarà però l’orizzonte futuro per la scalata e l’avventura verticale? Ci sono sì ancora tanti problemi insoluti su montagne lontane ma queste non sono accessibili a tutti. Forse, come in ogni storia umana, “ci sono i corsi e ricorsi storici” anche nell’alpinismo. Sembra vi sia una tendenza ad un ritorno alla scalata tradizionale (trad), ma non il trad nostrano che sarebbe un ritorno a chiodi, staffe ecc. ma un trad di stampo inglese ove di fatto non è mai stato abbandonato, ossia basta all’uso del trapano ed impiego esteso di protezioni mobili.
Anche l’interpretazione della “via nuova” è cambiata, a tal proposito citerò un esempio: nel 1980, con tre amici, tracciavo una nuova via sullo Piastro Rosso del Brouillard. Toccando il vertice dello splendido monolite era naturale per noi considerare l’impresa definita e conclusa. 40 anni dopo, il 31 giugno 2020, Della Bordella, Cazzanelli e Ratti vi tracciano una nuova via di grande difficoltà ma al termine non giudicano la loro via compiuta. Infatti vi ritornano l’8 luglio con un altro compagno e la ripercorrono salendo in “libera” tutti i passaggi. Solo così considerano l’opera pienamente realizzata
Chissà quale sarà il futuro? Ai giovani e forti scalatori il compito di tracciarne la strada.
Ugo Manera