Ailefroide - Parete Nord Ovest
Settantacinque anni fa, nel 1946, cadeva Giusto Gervasutti sul Mont Blanc duTacul, nel tentativo di salire il pilastro che ora porta il suo nome. Gervasutti il “Fortissimo”, è molto noto tra gli scalatori torinesi (e non solo) per la sua eccezionale attività alpinistica e perché a lui è dedicata la scuola di alpinismo che porta il suo nome. Scuola attraverso la quale sono passati centinaia di aspiranti scalatori in oltre 70 anni di attività. Nel ricordo di questo grande scalatore ho voluto riproporre il mio racconto della salita della parete Nord Ovest dell’Ailefroide, una delle più grandi realizzazioni del “Fortissimo”
AILEFROIDE
Parete Nord-Ovest
<<…..Dalla vetta del Pic d’Olan Lucien Devies mi mostrò la lontana montagna ancora a me sconosciuta e me ne illustrò la storia alpinistica. Il suo aspetto selvaggio ed i suoi 1000 metri di appicco subito conquistarono la mia simpatia e venne senz’altro deciso che la nostra prossima visita al gruppo del Delfinato sarebbe stata dedicata all’Ailefroide. La decisione fu felice perché, a impresa compiuta, la salita si dimostrò la più bella fra quelle da noi compiute in quella zona e, se non all’estremo limite delle difficoltà, fra le più belle ed interessanti salite di tutte le Alpi……>>
Con queste parole Giusto Gervasutti apriva e chiudeva il capitolo della sua prima ascensione della parete Nord Ovest dell’Ailefroide che, nel 1936, rappresentò probabilmente la massima impresa compiuta nelle Alpi fino a quel momento. A distanza di 42 anni questa via può considerarsi, tra le grandi imprese del “Fortissimo”, la seconda dopo la parete Est delle GrandesJorasses. Le caratteristiche della parete: selvaggia in un mondo selvaggio,il modo come è stata vinta e le poche ripetizioni ne fanno un mito nel quale si riflette la personalità dell’uomo che l’ha vinta.
Quando vidi la Nord-Ovest dell’Ailefroide rimasi ammirato dalla sua grandiosità ma anche un po’ spaventato non pensavo lontanamente che un giorno l’avrei salita. I miei desideri allora erano rivolti alla salita delle cime più alte per le vie più facili; ammiravo gli scalatori che vincevano le pareti difficili,mi apparivano quasi dei super uomini degni della mia ammirazione ma da non imitare. La grande parete, vista da me nel corso di una gita sci alpinistica, rimase però in un angolino della memoria e, quando più avanti l’indirizzo del mio alpinismo cambiò radicalmente, cominciai seriamente ad inserirla nella lista dei miei progetti. Mi frenava il fatto che sulla via Gervasutti era concreto il rischio della caduta di pietre. Ne avevano accennato i primi salitori ed anche i ripetitori: i punti più esposti erano il grande canalone di Coste Rouge e le celebri placche grigie. Alla luce dei fatti però ho potuto costatare che il rischio di caduta sassi esiste ma in tratti limitati e risultò minore di quanto mi fossi immaginato.
Io cerco di evitare i percorsi esposti a pericoli oggettivima la selvaggia Ailefroide mi attirava troppo e mi incuriosiva anche il fatto che dopo il grande Giusto nessun italiano l’aveva più salita. Il momento di passare all’azione si presentò nella seconda metà dell’agosto 1978, quando le condizioni delle Nord del MassifdesEcrins risultavano ottimali.
Mi accordai con Flaviano Bessone e giungemmo a La Berarde nel pomeriggio di una calda giornata estiva. Nel cielo correvano in modo disordinato grosse nubi ma le ampie zone di sereno le interpretammo come una promessa di bel tempo. Scorgemmo la parete ancor prima di entrare nel piccolo villaggio: ci apparve altissima, lontana e piena di mistero. Era illuminata dai raggi pomeridiani del sole e sembrava immensa.Erano ben riconoscibili i tratti della via Gervasutti che avevo imparato a conoscere leggendo il libro del “Fortissimo” ed altri articoli su quella scalata: il grande pilastro, le placche grigie, la cengia nevosa a mezzaluna.
Come è di norma in Delfinato dovemmo affrontare una lunga marcia nel piatto vallone de La Pilatte poi, sulla destra orografica, risalire il canalone di ClouteFavier che porta sotto la parete dell’Ailefroide. Nel canalone vi era neve compressa che si saliva bene ma presto ci portammo sulla riva destra, più scomoda ma più riparata da eventuali cadute di sassi. Fumate di nebbia salivano lungo i canaloni della grande parete; ogni tanto ci fermavamo a rincorrere con lo sguardoquelle ondate nebbiose cercando sulla parete risposte agli interrogativi che si affacciavano alla nostra mente.
Trovammo un ottimo posto per bivaccare: unripiano, erboso, con acqua vicino e protetto da una verticale parete alle nostre spalle. Il meglio desiderabile in quel sito così primitivo e selvaggio.
Lasciammo il bivacco che era ancora buio: la luna illuminava in parte il ghiacciaio lasciando la grande parete nella più completa oscurità. Ero impaziente e mi avviai mentre Flaviano finiva di preparare il sacco. Lo attesi sul ghiacciaio pianeggiante attento ai rumori che giungevano dal buio della parete, cercando di convincermi che il punto ove eravamo diretti non era sotto il tiro dei sassi.
Alle prime luci iniziai ad arrampicare e presto mi accorsi di aver commesso un errore nell’individuare l’attacco corretto. Mi resi presto conto dell’errore ma per non perdere tempo decisi di forzare il passaggio. Due difficili lunghezze di corda ci riportarono sul percorso giusto. Salimmo poi veloci fino al punto ove occorre traversare il grande canalone: uno dei punti più pericolosi per le pietre. Tutto era tranquillo e silenzioso, attraversai velocemente e mi fermai sotto ad una sporgenza di roccia. Sopra di me la roccia era liscia ma con l’aiuto di un chiodo, riuscii a raggiungere delle rugosità che mi permisero di togliermi velocemente dalla zona pericolosa.
Salimmo per le rocce rotte, non difficili, che formano la base del pilastro centrale. Il luogo è di una severità quale raramente si incontra: a sinistra il tetro canalone di Coste Rouge di neve sporca e rocce sfaldate, a destra le grandi placche di ghiaccio aggrappate alle scure rocce affioranti, sopra il grande pilastro con le sue incognite.
Con il primo salto del pilastro iniziano le grandi difficoltà; nella sua relazione Gervasutti colloca nelle prime due lunghezze il passaggio più difficile della via. Noi, pur riscontrando difficoltà continue di V e V+, non trovammo questo tratto più impegnativo di altri che dovemmo superare più in alto sulla parete.
L’arrampicata sul filo dello spigolo si rivelò lunga e faticosa con tratti molto belli. Verso la fine dovetti vincere un diedro di roccia verdastra che mi impegnò a fondo: pochi chiodi di assicurazione e appigli arrotondati sfuggenti mi costrinsero alla massima concentrazione per un passaggio che Flaviano, con la corda davanti, definì: "passo da massi".
Il pilastro termina con una piccola cupola di nevee la scalata, fino a qua lineare e su roccia salda, perde il suo filo conduttore lungo le preoccupanti “placche grigie” e per il dedalo di canalini ghiacciati della parte terminale.
Quando giungemmo alla sommità del pilastro il sole batteva sulla sovrastante cengia a mezzaluna e questo ci preoccupava ulteriormente per la possibile caduta di sassi nei punti dove noi dovevamo passare. Da tempo sentivamo nei canaloni laterali de secchi colpi ma sul pilastro ci sentivamo sicuri, al di sopra però la musica cambiava. Mi avviai sulla facile crestina di neve ed iniziai ad arrampicare sulle placche grigie. Ad un tratto un sibilo mi fece alzare gli occhi: due pietre si schiantarono sulla crestina di neve alle nostre spalle. Preoccupati cercammo di salire più velocemente possibile tenendoci sulla destra, nella zona che sembrava meno esposta al bombardamento.
Sebbene sulle placche non si incontrino passaggi difficili come sul pilastro, rimangono, a mio avviso, il punto chiave della via. Noi ci dovemmo impegnare seriamente su quei lastroni compatti, senza una linea evidente da seguire e con poche possibilità di piazzare ancoraggi per l’assicurazione. Il tutto con alle spalle un vuoto di centinaia di metri, esposto su tetri canaloni e livide placche di ghiaccio sporco.
Superate le placche arrivammo alla cengia a mezzaluna nella fiammeggiante luce del tramonto. Trovammo unostretto pendio di ghiaccio coperto da sassi che serpeggiando conduceva verso destra in direzione di un preoccupante canalino di rocce rotte completamente coperte da ghiaccio colato. lo stato d’animo del mio compagno era, in quel momento, diametralmente opposto al mio. Flaviano ama soprattutto la bella arrampicata su roccia salda e difficile ed in quel momento imprecava per la fatica, per la pietra coperta dal ghiaccio e per l’inevitabile bivacco che ci aspettava in un ambiente ben poco ospitale. Io invece ero esaltato da quel luogo severo, soddisfatto dalla salita, con ormai le maggiori incognite alle spalle. Il dover fare un bivacco disagevole non mi disturbava affatto: faceva parte del giuoco.
Salendo su spuntoni affioranti dal ghiaccio giunsi ad un ammasso di pietre instabili appoggiate contro la parete verticale; tutto attorno uno strato di ghiaccio copriva ogni cosa. Flaviano mi raggiunse nel buio completo, sempre più contrariato per dover arrampicare su quel terreno ed in quelle condizioni. Il bivacco fu molto disagevole: rannicchiati malamente e sostenuti dalle corde. Verso mezzanotte un bagliore di lampi lontani destò qualche preoccupazione in noi, ma sopra le nostre teste il brillare delle stelle ci rassicurò.
Le prime luci dell’alba ci consentirono di valutare la situazione e di fare il nostro piano d’azione. Il percorso logico indicava di andare a destra ma da quella parte le rocce erano coperte completamente da una cascata di ghiaccio. Salii allora direttamente sopra il nostro bivacco superando passaggi difficili, poi attraversai a desta per portarmi al di sopra della cascata di ghiaccio. Le corde smossero una pietra che colpì il mio socio alla schiena, fortunatamente senza procurargli alcun danno. Senza incontrare altre difficoltà rilevanti, salimmo, alternandoci al comando, fino alla base del camino terminale. Cento metri lungo un camino abbastanza impressionane ci separavano dalla cima, il suo fondo era completamente coperto dal ghiaccio.
Iniziai cercando di evitare il ghiaccio sulla parete di sinistra con passaggi impegnativi ma su roccia salda, superai due vecchi chiodi poi mi riportai nel camino e proseguii con magnifica arrampicata in spaccata su scaglie di roccia imprigionate dal ghiaccio. Sostai su un comodo ripiano, Flaviano mi raggiunse e proseguì verso l’alto su difficoltà sempre elevate. Per lunghi minuti lo seguii con lo sguardo e con un po’ di apprensione, fino a quando giunse ad un buon punto di sosta. Sopra di noi il camino terminava contro un grande tetto. Mi innalzai fin contro il tetto, sostituii un vecchio chiodo che muoveva nella fessura in cui era infisso e mi avviai in una traversata strapiombante verso sinistra. Un freddo piacere mi invase quando, afferrato saldamente un buon appiglio mi lasciai dondolare per raggiungere con i piedi la rampa che porta fuori dalla parete. Ancora pochi passi poi con un grande urlo annunciai all’amico che eravamo fuori. La nostra lotta sulla grande parete era finita ed avevamo vinto.
Poche facili roccette poi fu la vetta dell’Ailefroide, era mezzogiorno. Rimanemmo per un po’ in cima al sole parlando della salita compiuta, dei primi valorosi salitori e del gruppo di Pierre Béghin che ne effettuò la prima invernale nel 1975, quando era considerato il più importante problema invernale ancora insoluto delle Alpi.
Poi iniziammo la lunga discesa, avversata verso la fine, da un violento temporale
Ugo Manera