Corso di Alpinismo 2023: un’uscita anomala e l'abbandono della convenienza
Quando torniamo a casa, è sempre bello ricordare i dettagli di una bella salita, di una giornata andata al meglio, in cui tutto era stato organizzato nei dettagli, e la pianificazione ha portato i sui frutti sul campo.
A volte però questo non accade, per svariati motivi e le responsabilità infine credo sia giusto considerarle sempre di noi istruttori.
In quest’ultima uscita al Rifugio Torino, la mia cordata ed io abbiamo vissuto un’esperienza un po’ diversa dal solito, dovendo confrontarci con alcune variabili impreviste.
Negli ultimi anni non riesco più a partecipare con costanza a tutte le uscite del corso di alpinismo della Scuola Gervasutti. Impegni lavoravi anche quest’anno mi hanno fatto perdere la classica uscita di due giorni in valle Orco, luogo cui sono molto legato. Stesso discorso, ma per piacere, vale per l’uscita in Piantonetto, posticipata per maltempo.
Il corso di quest’anno, diretto come sempre con attenzione ed esperienza da Gianfranco Floris, prevedeva però altre tre uscite, una giornata alla Castello Provenzale ed una in valle Orco (recupero della seconda giornata in Castello). Il weekend appena passato, invece, ha portato a conclusione il percorso degli allievi con l’uscita del Monte Bianco, sempre bella e varia, dove c’è modo per tutti di divertirsi ed imparare a muoversi in alta quota.
Seppur partecipando part-time, devo dire che è stato uno splendido corso e non lo nascondo, anche io ho avuto modo di togliermi qualche piccola soddisfazione. Della dozzina di allievi presenti, tutti si sono rivelati molto motivati, e molti anche dotati per l’arrampicata e l’alpinismo. Avevamo tra noi due allievi del corso avanzato, che è l’anticamera all’ingresso nella Scuola come istruttori, ed un aspirante istruttore, che si è brillantemente distinto per capacità e dedizione.
La meteo variabile, imprevedibile e instabile è stata una costante per tutto il corso, tuttavia si può dire che da un giorno all’altro ormai è difficile che le previsioni sbaglino, non siamo neanche più abituati a questa eventualità. Gli ultimi anni poi, con periodi prolungatissimi di alta pressione hanno fatto il resto nel disabituarci all’imprevedibilità del tempo.
Come sempre organizziamo l’uscita in alta quota su due giornate. Prendiamo la prima benna della funivia il sabato mattina, in modo da partire presto per le salite e tornare più serenamente la sera senza il patema di perdere la funivia. Le salite di ghiaccio e misto, quelle da partire a notte fonda, da anni ormai a luglio sono da escludersi a priori.
Il giorno dopo, con più calma, possiamo quindi affrontare salite più brevi e vicine, più didattiche, e svolgere tutta la parte di teoria sulle manovre di autosoccorso, per poi prendere la funivia del ritorno nei tempi stabiliti.
Quest’anno la meteo era appunto molto instabile, addirittura Chamonix Meteo, che è considerato il sito di riferimento per le previsioni del massiccio, sembrava in imbarazzo nel definire una previsione per il weekend, ma dava comunque una discreta finestra di bel tempo la mattina di sabato, poi peggioramento senza precipitazioni e infine un miglioramento nel pomeriggio di domenica.
Arrivati al Col Flambeau ci troviamo davanti una giornata incredibile, sole, caldo, non una nuvola, niente vento. Decidiamo di partire per le nostre salite, tenendoci comunque abbottonati. Chi va al Dente, chi ai satelliti a scalare su roccia, chi per creste, tutti si incamminano verso la loro destinazione con la felicità di affrontare una bella e calda giornata.
Io insieme ad un altro istruttore della Scuola, perché con la Scuola mai si dovrebbero affrontare salite senza il supporto di un’altra cordata, decidiamo di dirigersi verso il Pilier Rouge del Clocher du Tacul, vogliamo scalare la via “Conflitto Finale” sulla sua parete Est (scarica qui il topo), che stranamente non è relazionata su alcun sito, ma è presente sulla bellissima guida JMEditions di Damilano & c.: sembra davvero una via ideale per la giornata, tutta in fessura, completamente da proteggere (tranne due spit) ma con soste attrezzate. Inoltre conosco bene la zona, infatti l’anno scorso avevo scalato con gli allievi la via a fianco, il Pifferaio di Spit, e sfruttato le stesse soste di calata che dovremo usare oggi, quelle di Empire State Building, sulla parete Sud – Est.
Iniziamo la nostra salita, tutto procede bene, ma dopo circa tre tiri mi accorgo di qualche nuvola dall’aspetto conosciuto, sono cirrostrati che so essere carichi di umidità e portatori di brutto tempo. Dopo di loro, il classico “pesce” sopra il Bianco e sul Dente, un altro brutto segnale, nonostante il sole caldo.
Siamo a due tiri dalla fine della bellissima via, dobbiamo arrivare in punta perché le calate sulla via sono sconsigliate, troppi rischi di incastro. Dovremo necessariamente arrivare in punta e calarci sulla parete Sud-Est.
Già al terzultimo tiro aveva iniziato a nevicare, ma era più che altro ghiaccio, faceva molto freddo, almeno questo non comportava problemi nella scalata. Poi il ghiaccio è diventato neve, ed infine pioggia torrenziale. Gli ultimi due tiri, anche tra i più difficili della via, li abbiamo scalati sotto il diluvio, completamente fradici. Le doppie sono state anche peggio, con ben due incastri, dovuti alla fretta e alle condizioni meteo proibitive. Le giacche hanno iniziato a inzupparsi, i piedi pure, le mani a congelarsi, era imperativo arrivare il più presto possibile con i piedi sul ghiacciaio. Qualcuno era vestito poco, qualcuno male, ma tutti avevamo in mente cosa fare e la scala delle priorità. Ci leghiamo in fretta, come un cane da tartufi seguo la giusta traccia, e alla massima velocità percorriamo il ghiacciaio. Nonostante tra acqua e nebbia si veda ben poco, arriviamo finalmente ai piedi del pendio finale che dà accesso al Col Flambeau, per la prima volta sono contento di vedere quella rampa, almeno ci scaldiamo un po’.
L’arrivo in rifugio è mistico, c’è chi lancia via i ramponi e chi abbraccia la stufa, l’unica cosa che non si trova è il posto dove mettere ad asciugare le proprie cose, oltre che nel mio caso, un paio di mutande di ricambio.
Il giorno dopo, manco a dirlo, è stata una giornata tersa e bellissima, in cui abbiamo avuto la possibilità di svolgere attività e salite puramente didattiche e le famigerate manovre.
In conclusione, mi viene da pensare che forse questa attività negli ultimi anni ha assunto una conformazione per cui tutto sembra scontato e debba per forza svolgersi linearmente secondo quanto programmato. Abbiamo una mole di informazioni tale, tra relazioni, meteo, letteratura, che sbagliare sembra impossibile, il fallimento, ovvero l'abbandono della convenienza, o l’imprevisto non vengono neanche considerati. Ed allora via, fast and light, poca attrezzatura, tempi ridotti, si torna in rifugio dove c’è talmente tanta altra gente come te, che non trovi neanche posto per mettere ad asciugare i calzini. E se anche capitasse qualcosa di imprevisto, la colpa non è tua, è del caso, il fato ineluttabile, ovvio. O comunque di qualcun altro.
Gli errori si commettono, potevamo fare una via con una discesa più comoda? Potevamo provare a calarci sulla nostra via e anticipare di un paio di ore? Potevamo portarci qualche strato impermeabile in più? Si, tutto questo e tanto altro. Ma avevamo dalla nostra un bagaglio tecnico adeguato a scalare gli ultimi difficili tiri anche col bagnato, eravamo in due cordate, sapevamo perfettamente dov’eravamo e avevamo per ogni evenienza preso la traccia di avvicinamento. Conoscevamo esattamente le capacità dei nostri allievi.
Per fortuna questa piccola avventura si è risolta per il meglio, e oggi siamo a pensare “che freddo sabato!”, però che giornata! La salita l’abbiamo portata a casa, la pellaccia pure, e secondo me anche una bella esperienza di “fallimento”, o quantomeno abbiamo imparato che alle volte non va tutto come previsto, ma che se le fondamenta sono buone, costruite con pazienza, in qualche modo se ne esce anche quando si commette un errore e la montagna decide di farci provare cosa vuol dire “sbagliare”.
Filippo Ghilardini